Uno studio congiunto del MUSE – Museo delle Scienze di Trento- e dell’Università di Firenze, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Ambio, rivela gli effetti di lungo periodo della frequentazione escursionistica negli ambienti montani sulla fauna selvatica. In particolare, sottolinea il trend degli animali a diventare più notturni in luoghi di intenso turismo alpino.
Come reagiscono gli animali selvatici al turismo alpino e a una crescente presenza di esseri umani nei loro habitat? La ricerca del MUSE e dell’Università di Firenze “Crowded mountains: Long-term effects of human outdoor recreation on a community of wild mammals monitored with systematic camera trapping” accende i riflettori sul tema, sostenendo d’altro canto come un’attività di monitoraggio scientifico standardizzato sia fondamentale per misurare la sostenibilità ambientale delle attività umane e per raggiungere gli obiettivi di supporto alla biodiversità posti dall’ONU.
Una metamorfosi degli spazi montani
Negli ultimi decenni, la fruizione del territorio montano ha subìto una metamorfosi. L’abbandono delle pratiche di agricoltura e pastorizia, in molte aree, ha consentito una rigenerazione naturale delle foreste. Grazie a ciò, molte specie di mammiferi hanno potuto riappropriarsi dei boschi, loro habitat naturali.
Allo stesso tempo, tuttavia, è aumentata esponenzialmente la frequentazione turistica di tali aree, creando- in territorio alpino e in altre zone assimilabili- un potenziale disturbo per gli animali selvatici.
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Il ruolo del turismo alpino: lo studio
Lo studio, che si propone di comprendere gli effetti a lungo termine della “convivenza forzata” tra umani e animali, ha utilizzato 60 fototrappole. Lo scopo è di rilevare i passaggi di animali e persone e monitorare la fauna per studiarne le possibili risposte all’intenso turismo alpino.
Le fototrappole sono state piazzate regolarmente, ogni estate, a partire dal 2015 in un’area delle Dolomiti del Trentino occidentale altamente frequentata da escursionisti.
Il primo risultato- rassicurante in termini di biodiversità- è che l’intensa frequentazione umana non ha interferito con la presenza stabile o in crescita delle specie studiate.
Il secondo, invece, ha rilevato che tutte le tipologie di animali (orso, cervo, camoscio, capriolo, tasso, volpe, lepre e faina) diventano più notturne per diminuire la probabilità di incontrare persone e, anche quando si trovano più vicino ai centri abitati, concentrano le loro attività durante la notte. I più grandi, inoltre, tendono a modificare i loro tragitti per evitare il più possibile il contatto con gli esseri umani.
Una convivenza possibile?
Tali comportamenti e strategie costituiscono per gli animali un potenziale costo. Un costo traducibile in una difficoltà di movimento, una regolazione non ottimale della temperatura corporea, l’utilizzo di aree meno produttive in termini di risorse alimentari.
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“La tendenza a una maggiore notturnalità è una risposta comportamentale comune a molti mammiferi esposti alla presenza di grandi numeri di persone, come testimoniano anche diverse ricerche a livello internazionale” ha affermato Francesco Rovero, docente di ecologia dell’Università di Firenze e coordinatore dello studio. “Da parte degli animali, l’impegno a evitare il contatto con gli esseri umani è notevole. Ora sta anche a noi umani fare attenzione adottando – ad esempio – alcune misure per limitare l’accesso ad alcune aree dei parchi naturali nei periodi dell’anno più delicati per la fauna. Una strategia già ampiamente applicata in molte parti del mondo”.