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La guida di Survival per decolonizzare il linguaggio nella conservazione della natura

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La guida di Survival per decolonizzare il linguaggio nella conservazione della natura ultima modifica: 2022-10-31T07:23:32+01:00 da Marco Grilli
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Survival invita a decolonizzare il linguaggio nella conservazione della natura per rispettare i migliori conservazionisti, le popolazioni indigene vittime del modello occidentale

Come e perché sia necessario decolonizzare il linguaggio nella conservazione della natura. Lo spiega Survival International in una guida.

Il colonialismo è un fenomeno storico che ha da sempre avuto conseguenze nefaste per le popolazioni che l’hanno subito, ma anche difetti d’interpretazione duraturi. Solo per citare il caso italiano, un recente fenomeno editoriale è il libro di Francesco Filippi dal titolo volutamente provocatorio: “Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie”, che ribatte sulla necessità di rileggere adeguatamente il passato imperialista e coloniale del nostro Paese.

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Una maggior chiarezza pare servire pure nel settore della conservazione della natura, come suggerito da Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, che ha da poco pubblicato l’interessante Guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione, considerata una risorsa fondamentale per chiunque scriva o parli di conservazione, cambiamenti climatici e protezione della natura.

La guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione

Decolonizzare la conservazione, secondo Survival, significa pensare alle parole e ai concetti che usiamo quando parliamo di questioni ambientali, perché “la violenza e il furto di terra subiti da milioni di indigeni e da altre popolazioni locali nel nome della conservazione derivano in gran parte da questi assunti”. L’80% della biodiversità della Terra si trova nei territori indigeni e le popolazioni che li abitano si son dimostrate da sempre capaci di gestirli e proteggerli al meglio.

Nonostante ciò, Survival denuncia che oggi, come ai tempi del colonialismo, il modello di conservazione prevalente che influenza pure tutti i media è quello della “conservazione fortezza”, basato sulla creazione di aree protette militarizzate in terre indigene, accessibili solo ai ricchi. Una tendenza disastrosa verso la quale confluiscono la maggior parte dei finanziamenti occidentali, che sta mettendo seriamente a rischio la terra e la vita dei popoli indigeni.

La conservazione ha una storia oscura che affonda le sue radici nel colonialismo, nella supremazia bianca, nell’ingiustizia sociale, nel furto di terre, nell’estrattivismo e nella violenza. Oggi, le principali organizzazioni della conservazione, come il World Wide Fund for Nature (WWF) e la Wildlife Conservation Society (WCS) non solo non hanno ancora messo in discussione questo passato, ma continuano a perpetuarlo. Questo sistema è parte di un processo di mercificazione della natura, a cui viene assegnato un “valore” così che possa essere scambiata e generare profitti. Ma la nostra “natura” è la casa d’altri. È il fondamento del loro modo di vivere, il luogo dei loro antenati, la fonte della maggior parte di ciò che li sostiene”, denuncia senza mezzi termini Survival nell’introduzione della guida.

Un documento importante che invita a mutare la prospettiva e a non considerare mai come neutre, oggettive o scientifiche le parole usate nel linguaggio conservazionista. Riflettere su questi termini e concetti, interrogarsi sulla loro origine, sul loro significato e sul motivo del loro utilizzo, sono gli sforzi che richiede questo breve dossier di rapida lettura, che invita a guardare la realtà con gli occhi di chi in quelle terre vive da sempre, perché le nostre aree di conservazione per altri somigliano più a zone di guerra.

La definizione di alcuni concetti base: “conservazione fortezza”, “conservazione coloniale” e “industria della conservazione”

Il primo concetto base fornito dalla guida è quello di “conservazione fortezza“, che consiste appunto nel mettere in disparte le popolazioni indigene al momento della creazione di un’area naturalistica. La natura è quindi trattata come un’entità separata dagli esseri umani e gli indigeni si ritrovano sfrattati dalle proprie terre, spesso picchiati, torturati o uccisi dai cosiddetti “guardaparco”, solo perché considerati una minaccia per la protezione di quei territori che in realtà proprio loro tutelano da tempo immemore. Tutto questo con un ulteriore paradosso: gli stessi gruppi o le organizzazioni di conservazione che hanno allontanato gli indigeni incentivano il turismo, la caccia sportiva, il taglio del legno e le attività estrattive  in quelle stesse aree che si prefiggono di proteggere.

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Survivor parla poi di “conservazione coloniale” perché quel “modello di conservazione fondato sul furto di terra ai danni di persone considerate troppo “primitive” o “inferiori” per prendersene cura”, esportato in tutto il mondo durante l’espansione degli imperi colonialisopravvive ancora oggi se pensiamo che “molte delle leggi e delle politiche ingiuste varate in epoca coloniale per la “protezione della natura” restano in vigore, incontrastate”. Non è stato dunque ancora sconfitto quel vecchio pregiudizio razzista del colonialismo, poiché nel modello di conservazione prevale l’idea che solo gli ambientalisti e scienziati occidentali siano in grado di tutelare le aree protette, mentre gli indigeni, ovvero i custodi originali della terra, più che esperti di biodiversità locale sono considerati un fastidio da affrontare.

Il terzo concetto presentato è quello di industria della conservazione. I parchi nazionali e le riserve faunistiche sono ormai considerati settori turistici a tutti gli effetti capaci di generare grandi entrate. Non solo, gli stessi progetti di compensazione di carbonio costituiscono un’altra rilevante fonte di profitto, con alcune organizzazioni naturalistiche che rivestono i ruoli di intermediari, operando come imprese e adottando così un approccio alla conservazione basato sul mercato.

I termini da decostruire

Secondo Survival, nel linguaggio della conservazione permangono precetti razzisti e colonialisti, così che parole positive o neutre accompagnano le attività degli occidentali bianchi, mentre termini negativi sono utilizzati per riferirsi alle popolazioni indigene. La guida presenta alcuni esempi di coppie di parole contrapposte che riflettono quanto descritto. Ad esempio, se la cacciagione indica una pregiata specialità quando servita nei ristoranti europei, il termine bushmeat per indicare la carne selvatica consumata dagli indigeni ha un’accezione negativa, perché considerata frutto di bracconaggio. Tra l’altro, “se cacciano animali selvatici per nutrire le proprie famiglie, molti Africani rischiano multe, pestaggi, detenzioni o anche peggio”. 

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Ecco quindi che la parola caccia indica i turisti facoltosi, generalmente bianchi, che uccidono la fauna locale per sport, mentre bracconaggio è il termine utilizzato “per criminalizzare lo stile di vita da cacciatori-raccoglitori di molti popoli indigeni e per impedire loro di cacciare per sfamare le loro famiglie e vivere in modo sostenibile nelle terre ancestrali”.

Altri due concetti sono quelli di intrusione ed esplorazione. Gli intrusi sarebbero le popolazioni locali che con il loro bestiame accedono alle aree protette, mentre il termine esploratori indica semplicemente i turisti paganti che fanno safari nelle stesse terre.

Se poi la contrapposizione allevatori (bianchi) pastori (neri) traduce il fatto che “le leggi fondiarie, i diritti di proprietà e gli amministratori della terra hanno marginalizzato senza sosta i pastori e minato i loro mezzi di sostentamento”, l’altra tra viaggiatori (turisti bianchi) e nomadi (indigeni) si rivela utile per i governi che vogliono criminalizzare gli stili di vita dei popoli pastori e cacciatori-raccoglitori, costringendoli a sedentarizzarsi in luoghi dove perdono la loro sicurezza alimentare e la loro resilienza economica e climatica.

Infine, nei rapporti tra esseri umani e fauna selvatica, il termine coesistenza riflette la possibilità, ad esempio in Europa, di poter vivere o entrare senza restrizioni nelle aree protette, laddove in Africa o in Asia si parla di conflitto, quindi della necessità che i popoli indigeni vengano sfrattati dalle proprie terre perché incapaci di vivere in armonia con gli animali.

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Cliché e concetti controversi

La parte finale della guida è dedicata a quei concetti problematici che, se non adeguatamente definiti, finiscono per diventare ingannevoli o fuorvianti. La “conservazione fortezza” si avvale dell’opera dei guardaparco, non bonari ranger ma agenti militari e paramilitari della conservazione, che non esitano a ricorrere a ogni tipo di violenza verso gli indigeni, destinata a rimanere impunita. Lo stesso concetto di area protetta ha un significato molto diverso in Europa o in Asia/Africa: nel primo caso si tiene sempre conto degli interessi delle comunità locali, nel secondo caso no. Quando poi si parla di wilderness o aree vergini/selvagge si fa riferimento non alla realtà ma a un mito coloniale. “Quest’idea occidentale è razzista e tenta di invisibilizzare il ruolo giocato dai popoli indigeni nell’alimentare e gestire i propri territori, le regioni più biodiverse al mondo”, si legge nella guida.

Survival critica poi i concetti di natura come entità al di fuori e distinta dall’umanità, e quello di net-zero, che non significa che un’azienda non produce emissioni se compra i crediti di carbonio. I progetti di compensazione prevedono che, aziende e governi responsabili delle emissioni di una certa quantità di CO2, possano finanziare altrove dei progetti considerati capaci di catturare lo stesso quantitativo di anidride carbonica o di impedirne il rilascio. Le due modalità di compensazione, i progetti REDD+ o la piantumazione di alberi, son ritenuti però da Survival inefficaci e pericolosi per le popolazioni indigene. I primi perché, lungi dal proteggere la foresta dalla deforestazione, finiscono per produrre furti di terra, i secondi perché finiscono per diffondere monocolture di alberi a crescita rapida (eucalpipto/acacia), che distruggono la biodiversità locale presente e non risolvono il problema dell’inquinamento. Un tema, quest’ultimo, ben affrontato dalla guida nel concetto “riforestazione/afforestazione“.

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Nel mirino di Survival finiscono pure i concetti di ripristino ecologico, poiché è controverso e arbitrario decidere a quale epoca si dovrebbe riportare un ecosistema, e soprattutto quello ancora un po’ vago di soluzioni basate sulla natura (NBS), in quanto “i progetti NBS non affrontano le reali cause dei cambiamenti climatici, ovvero le emissioni generate dai combustibili fossili e lo sfruttamento delle risorse naturali per profitto trainati dal Nord globale. Inoltre, l’uso del termine raramente è accompagnato da spiegazioni su dove questi progetti NBS verranno condotti e su quali saranno le conseguenze per la popolazione locale.

Fondamentalmente razzista è invece il concetto di sovrappopolazione, che tende a criminalizzare coloro che meno contribuiscono al cambiamento climatico e più ne subiscono le conseguenze. “La vera causa della perdita di biodiversità, dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici non è il numero crescente di persone nel Sud globale ma lo sfruttamento delle risorse per profitto e il sovra-consumo crescenti trainati dal Nord“, commenta Survival, che indica nelle sterilizzazioni forzate di donne nere e indigene, senza il loro consenso, la conseguenza più drammatica di questo portato ideologico.

Infine, quando si parla di consultazione  o consenso libero, previo, informato, stabilito dalla legge internazionale per qualsiasi progetto da realizzarsi in territorio indigeno, bisogna prendere in considerazione che i popoli indigeni hanno il diritto di rifiutare qualsiasi progetto sulle loro terre, incluse le aree protette, e lo stesso consenso dovrebbe esplicitarsi come un processo continuo con il diritto di cambiare opinione sulle decisioni precedenti.

Le vostre aree di conservazione sono per noi zone di guerra, afferma un leader Masai della Tanzania. Con questa guida  Survival apre gli occhi al mondo sui lati più oscuri della conservazione, restando in prima fila in difesa dei diritti delle popolazioni indigene.

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Laureato in Lettere moderne, giornalista pubblicista e ricercatore in storia contemporanea, è consigliere dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea. Nei suoi studi si è occupato di Resistenza, stragi nazifasciste e fascismi locali, tra le sue pubblicazioni il volume “Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia”. Da sempre appassionato di tematiche ambientali, ha collaborato con varie testate online che trattano tali aspetti. Vegetariano, ama gli animali e la natura, si sposta rigorosamente in mountain bike, tra i suoi hobby la corsa (e lo sport in generale), il cinema, la lettura, andar per mostre e la musica rock.

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