Il nuovo libro della collana BookBloc spiega come overtourism, gentrificazione e Airbnb hanno cambiato il volto delle nostre città accentuando le diseguaglianze e minando lo Stato Sociale
Lo chiamano il “petrolio d’Italia” e, in effetti, il turismo così come viene praticato nel nostro Paese è una replica dell’iter di scoperta, sfruttamento, esaurimento e abbandono che caratterizza l’industria delle energie fossili. Con la crisi dei comparti industriali che hanno sorretto l’economia dagli anni del boom all’alba del nuovo millennio, l’Italia ha deciso di scommettere sul turismo. Incrinatosi l’ultrasecolare legame fra industria e urbanizzazione, le amministrazioni locali hanno deciso di scommettere sulla gentrificazione dei centri storici e dei quartieri limitrofi assurgendo il decoro a stella polare di ogni “rigenerazione urbana”.
Il turismo che ci viene raccontato come generatore di ricchezza è figlio del neoliberismo di matrice thatcheriana e reaganiana, quindi un dispositivo che arricchisce le élite, facendo pagare il conto a cittadini, lavoratori e Stato Sociale. Noi di e-Habitat abbiamo incontrato la giornalista e scrittrice Sarah Gainsforth che in autunno ha pubblicato Oltre il turismo, un breve ma densissimo saggio della collana BookBloc di Eris Edizioni che sradica a suon di dati le narrazioni dominanti di un tema capitale nel futuro delle città.
Il suo libro inizia in due città, Dubrovnik e Venezia, rese invivibili dalla turistificazione. Quali sono le conseguenze sociali e urbanistiche di una città che si vota per intero all’accoglienza turistica?
Dubrovnik e Venezia sono due casi estremi di turistificazione che ho scelto di raccontare per mostrare il fallimento di una logica autodistruttiva, che spreme ricchezza dai territori lasciandoli svuotatati, invivibili e fragili. Come in natura, la diversità e la varietà sono vitali. La monocultura turistica, la specializzazione dell’economia in un unico settore, uccide questa varietà trasformando città e territori in luoghi disabitati, privi di vita, insomma musei. Scompaiono gli abitanti, sostituiti da turisti, chiudono le attività commerciali di vicinato, aprono negozi per turisti. Di solito i prezzi, i valori immobiliari e i canoni di affitto aumentano, mentre il commercio e la qualità urbana generale decadono a vista d’occhio. I ceti sociali meno abbienti vengono espulsi man mano che il processo di turistificazione viene guidato da grandi attori privati che investono capitali nel settore immobiliare, spesso dall’estero, e da politiche pubbliche più o meno determinanti nel facilitare il processo.
La liberalizzazione delle licenze commerciali in Italia, per esempio, ha contribuito allo stravolgimento del tessuto commerciale. In generale, la città turistificata è il risultato più tangibile di un processo decennale, quello dell’espansione della logica dell’accumulazione finanziaria in ogni ambito del mercato e della vita, che ha divorato ogni principio di utilità sociale dell’economia, tanto che nella città turistica non c’è vita, è vuota. Oggi riusciamo a vederlo. Che gli alberghi siano vuoti e il settore in crisi non stupisce e può anche dispiacere. Quello che fa impressione è la quantità di case, di negozi, di strade e piazze vuote. Certo, questo è il risultato di diversi fattori, la crisi del commercio è in atto da tempo, ma la turistificazione ha accelerato questi processi. Di contro, in zone urbane non turistiche c’è stata una riscoperta della dimensione del quartiere. Il paradosso, ancora una volta, è questo: la richiesta di salvataggio di un’economia insostenibile, di un settore che non funziona, che dev’essere tenuto in vita a spese della collettività, con soldi pubblici.
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Penso agli Airbnb, al commercio: a giugno scorso, riporta il Sole 24 Ore, su 29 città ad alta vocazione turistica a beneficiare del fondo perduto per i centri storici ben 20 sono collocate nelle regioni del centro-Nord e le 9 restanti al Sud. Sono state le attività turistiche, senza alcun piano di “ristrutturazione” dell’economia. Fino a ieri era tutto un “viva il libero mercato”, oggi il rischio d’impresa lo paghiamo noi.
Questo paradosso naturalmente non riguarda solo il turismo (penso all’agricoltura, alla pesca, ma anche alle priorità del Recovery Plan) e non riguarda solo l’Italia. La pandemia rende evidenti i limiti di questo modello, non li crea. La pandemia sarebbe potuta essere l’occasione per cambiare paradigma, ma si continua a parlare solo di rilancio dell’economia, non della sua trasformazione. Alcuni interessi non si vogliono toccare, così continuiamo a finanziare e sostenere con sussidi governativi modelli economici di estrazione intensiva di risorse nelle mani di pochi grandi attori, che impoveriscono i nostri ecosistemi urbani e naturali.
Qual è il sostrato ideologico nascosto nella retorica del turismo come risorsa e come elemento generatore di ricchezza?
Il problema è il modo in cui si produce “ricchezza”. Il turismo è uno strumento per estrarre ricchezza, non è una risorsa, una ricchezza in sé. La risorsa sono le città, i suoi abitanti e la loro cultura, i territori, l’ambiente. Come avviene l’estrazione di ricchezza? Dove finiscono i guadagni? Chi beneficiano? Queste sono le domande a cui ho provato a rispondere, oltre la narrazione che vuole che “il turismo genera ricchezza”.
Se guardiamo alla filiera del turismo, come ho tentato di fare nel libro, vediamo dei circuiti chiusi dove la ricchezza è estratta e portata altrove, non “gocciola” sul territorio. Un esempio su tutti: i tanti tour operator che, come le piattaforme, hanno sede fiscale all’estero. Di più, la promozione del turismo a discapito di altri settori economici, settori produttivi a più alto valore aggiunto, crea posti di lavoro poco qualificati con retribuzioni basse, stagionali, precari, quando non a nero. La narrazione per cui “il turismo crea ricchezza” si regge su una strategia a brevissimo termine che non richiede grandi progetti e investimenti. È una strategia pigra, priva di visione, oltre che autodistruttiva. L’idea è sfruttare al massimo e con il minimo sforzo il patrimonio storico, culturale, artistico e ambientale dell’Italia, come fosse un giacimento, infatti si dice che è “il petrolio d’Italia”. Ma questa ricchezza non è né accessibile a tutti e né viene redistribuita.
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Nel libro analizzo alcuni casi specifici di questo meccanismo, come la gestione, esternalizzata, del patrimonio artistico e culturale in Italia, le condizioni di lavoro nei settori turistici, il proliferare incontrollato degli Airbnb a Roma che hanno prodotto 15 milioni di presenze “fantasma”. Quando le amministrazioni promuovono il turismo come strategia di crescita e parlano di “rilanciare il turismo di lusso” come soluzione alla crisi attuale – come se questo automaticamente portasse ricchezza – tralasciano il semplice fatto che sono altri attori a beneficiarne. Il turismo può rappresentare un beneficio se a gestirlo sono le comunità locali e le amministrazioni pubbliche, perché altrimenti i costi del turismo, pagati dalla collettività, sono troppo alti. C’è però un problema di fondo: se non cambia la logica della mercificazione di tutto, le case, i quartieri e le città continueranno a essere messi, e a mettersi da soli, “in vendita”. Il problema è che la logica dell’attrattività, del marketing territoriale, della mercificazione è ormai completamente individualizzata, introiettata, come il proliferare di Airbnb ha mostrato. Recentemente, a Roma, gli abitanti delle case popolari a Tor Marcancia hanno protestato contro la gestione di un “museo di street art” realizzato con opere sulle pareti delle case Ater. Non hanno protestato contro il museo in sé: vogliono gestirlo, e dunque guadagnarci, loro.
Questa è per molti versi una battaglia condivisibile, ci mancherebbe. Il problema è che non mette in discussione la logica di fondo, quella dell’attrattività in chiave turistica dei quartieri e dei territori, del marketing e della valorizzazione economica dei luoghi, la logica alla base dell’industria del turismo. È una logica che si è estesa ovunque, e che rafforza la tendenza a indirizzare la spesa pubblica per beni e servizi non dove serve davvero ma dove è più remunerativa. Con il risultato di cui sopra, che i centri storici più “attrattivi”, quelli nel Nord-Italia, vengono aiutati di più.
Ancora, quante volte la creazione di nuove infrastrutture pubbliche, o progetti di rigenerazione urbana, vengono giustificati con l’obiettivo della “competitività”, dell’attrattività, del turismo? Ma la spesa pubblica dovrebbe garantire opportunità di crescita proprio ai quei territori lasciati indietro, non premiare i più attrattivi. Quando si dice che il turismo rappresenta uno strumento di crescita economica e, per esempio, la soluzione per ripopolare le aree interne, non solo si sta accettando questo capovolgimento, ma si dimentica che abitare e turismo sono due cose diverse: il turismo non necessita dei servizi essenziali per gli abitanti (scuole, ospedali, luoghi di cultura e socialità) quindi non si capisce perché l’aumento di turismo in un’area dovrebbe automaticamente tradursi in servizi per i residenti. Nelle città turistiche è avvenuto l’esatto contrario. Sono semmai i servizi, non il turismo e il suo indotto, ad attrarre nuovi residenti.
Esiste una precisa fase storica nella quale si è smesso di pensare e costruire le città per i lavoratori e si è iniziato a pianificarle ed edificarle per i visitatori?
Possiamo identificare questa fase nella svolta neoliberista, a partire dagli anni Settanta negli Stati Uniti, quando il principio di valorizzazione capitalistica penetra in settori che erano fino a quel momento improntati a un principio di utilità sociale. È la logica della competizione, della massima remunerazione, di cui parlavo prima. In “Breve storia del neoliberismo” David Harvey situa una delle prime campagne di marketing urbano, la celebre campagna “I love New York” del 1977, nel contesto della crisi urbana legata alla deindustrializzazione, all’esodo verso le periferie che aveva eroso la base economica della città e impoverito le zone centrali della città. L’economia si ristruttura intorno alla finanza, all’immobiliare, ai servizi, cambia il ruolo dello Stato, si taglia la spesa pubblica, i servizi, il welfare. Le città devono trovare da sé le risorse economiche: si mettono “in vendita”.
La città stessa, la sua trasformazione, diventa il motore dello sviluppo economico. Il ritiro del pubblico da tanti settori a favore del privato, con il disinvestimento e la privatizzazione dei servizi, facilitano la penetrazione del mercato in tutti gli ambiti, anche quelli sociali. Le città diventano prodotti. Le campagne di marketing mirano a renderle attrattive per investimenti e abitanti facoltosi, per i flussi turistici; la gentrificazione diventa una strategia di sviluppo urbano globale, che guida la riqualificazione di quartieri degradati dal disinvestimento pubblico. La “rigenerazione” ovviamente avviene secondo il criterio della massima rimuneratività. Questo processo è avvenuto, con le dovute differenze, anche in Italia a partire dagli anni Ottanta. È in questo contesto culturale che il turismo assume sempre più peso nell’economia delle città.
Negli ultimi quindici anni Airbnb, Booking e le compagnie low cost hanno contribuito alla crescita esponenziale dei flussi turistici. Secondo lei, come cambierà il loro ruolo nel mondo post pandemico?
Io credo che, al di là delle singole aziende e piattaforme, il loro ruolo si rafforzerà, trovando nuovi modi per promuovere il consumo, perché il punto è questo: bisogna continuare a consumare. La funzione del low-cost risponde a questo imperativo. Attraverso il low-cost, ottenuto dalle piattaforme come Amazon sacrificando i profitti a breve termine e scaricando i costi altrove, sui fornitori e sui lavoratori, le piattaforme (ma anche la Grande Distribuzione Organizzata, i supermercati), hanno conquistato posizioni di mercato dominanti. La pandemia ha rafforzato queste posizioni. Le piattaforme come Amazon e Airbnb svolgono in qualche modo una funzione di “welfare privato”: una enorme fetta di popolazione può viaggiare e consumare non perché le proprie condizioni economiche siano migliorate – al contrario, sono peggiorate –ma perché i prezzi sono apparentemente molto bassi (apparentemente perché i costi ci sono, ma sono altrove, sono esternalizzati).
Quindi nascondono l’impoverimento reale, per certi versi, mentre dall’altra contribuiscono a crearlo, presentandosi come la soluzione. Credo che questa logica, con la crisi economica che si prospetta, non potrà che rafforzarsi. È emblematico che Amazon abbia da poco introdotto la possibilità del pagamento a rate. Rispetto al turismo, è chiaro che ci sarà uno stallo molto lungo; il problema è che in questo stallo probabilmente alcuni attori si rafforzeranno, altri, i più piccoli, non ce la faranno. Quindi si rischia una ulteriore concentrazione di potere economico.
Le limitazioni imposte dalla pandemia sono state un’occasione per riscoprire un turismo di prossimità. Esiste, oggi, l’opportunità per fare in modo che l’espressione “turismo sostenibile” smetta di essere un ossimoro?
Forse un po’ ingenuamente credo che se solo si spostasse il focus dal turismo alle condizioni dell’abitare, un altro turismo sarebbe possibile. Se gli spazi fossero gestiti per essere abitati, poi ben vengano i turisti. Il tema è la gestione di questo equilibrio, secondo un principio politico, non economico. Ma non è una cosa da poco: significa cambiare paradigma rispetto alla logica dell’attrattività, e quindi della spesa pubblica, ristabilire la funzione sociale dell’economia, della proprietà. In questo momento siamo bombardati di greenwashing, di pubblicità che promettono mondi nuovi con rendering improbabili di città green e smart dove il futuro è tutto “innovazione” e “sostenibilità”.
Questa rappresentazione del futuro, allo stato attuale, è idealizzazione, marketing, è una rimozione gigantesca. Il punto è che entro questo sistema non esiste sostenibilità, non c’è soluzione. Insistere sui comportamenti individuali (penso alla pubblicità di Eni) serve a non mettere in discussione l’intero sistema. Credo che questo sia il cuore del problema. Continuare a cercare una soluzione “sostenibile” dentro un sistema insostenibile, in un disastro ambientale, è non voler fare i conti con il lavoro da fare, è consolatorio.
Sicuramente, il turismo di prossimità offre nuove prospettive, può avere impatti meno devastanti e perfino benefici sull’economia locale – certo dipende dai flussi, la scorsa estate abbiamo visto scene di code in montagna. Ci sono tante sperimentazioni interessanti in corso, idee giuste, energie positive che creano sempre nuove soluzioni e possibilità. Ma credo per poter parlare di turismo sostenibile bisogna prima scardinare per bene il modello attuale, e questo non si può fare individualmente, richiede una trasformazione radicale.
