Guardare Tiger King è un po’ come guardare Breaking Bad. Solo che è tutto vero

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Guardare Tiger King è un po’ come guardare Breaking Bad. Solo che è tutto vero ultima modifica: 2020-05-10T11:21:59+02:00 da Giuseppe Luca Scaffidi
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Tiger King, la docu-serie prodotta da Netflix, indaga il sottobosco del commercio dei grandi felini per raccontare la follia della provincia americana

Dalla sua uscita Tiger King, la docu-serie prodotta da Eric Goode e Rebecca Chaiklin, ha fatto registrare ascolti da record.

Nei primi dieci giorni di programmazione, i sette episodi che compongono lo show Netflix sono stati visti da oltre 34 milioni di americani, superando il record storico della piattaforma, precedentemente detenuto dalla seconda stagione di Stranger Things.

Con ogni probabilità, il regime di auto-isolamento forzato imposto dalla diffusione del Covid-19 ha rappresentato un forte incentivo in vista di questo risultato, contribuendo a proiettare la percentuale di share del programma verso posizioni apicali.

Tuttavia, il dato rimane quantomeno spiazzante se si prende in considerazione la tematica attorno alla quale – perlomeno in superficie – ruotano le vicende di Tiger King: il commercio dei grandi felini.

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Tiger King: una serie confezionata a regola d’arte

Come spiegare, quindi, l’alto livello di attenzione mediatica catalizzato attorno a un prodotto incentrato su un fenomeno (almeno teoricamente) così di nicchia?

La risposta è semplice: Tiger King è una serie confezionata a regola d’arte, girata con maestria, coadiuvata da una fotografia e un montaggio di altissimo livello e, in definitiva, perfetta per essere data in pasto al pubblico generalista.

In Tiger King, la denuncia delle precarie condizioni dei grandi felini cresciuti in cattività, ridotti a mera attrazione da parco a tema e costretti a vivere all’interno di gabbie talmente minuscole da rasentare il ridicolo, passa dichiaratamente in secondo piano.

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Certo, le scene urticanti non mancano, tra tigri costrette a cibarsi di carne scaduta, cuccioli di leone utilizzati come artifici scenografici o a fini elettorali e pratiche di eutanasia ad alto tasso di sadismo.

Eppure, nonostante gli svariati scorci di ordinaria follia (come regime di crudeltà e arbitrio cui vengono sottoposti tigri, leoni, puma e gli altri animali selvatici), a occupare il palcoscenico sono soprattutto il narcisismo e i deliri di onnipotenza degli attori che contribuiscono a perpetuare questo mercato milionario.

Per rendere conto delle proporzioni macroscopiche dell’indotto, basti considerare che, come riportato da worldwildlife.com, negli Stati Uniti le tigri in cattività sono circa settemila, mentre in natura ne sopravvivono più o meno 3.900  esemplari.

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La meccanica folle di Tiger King

Sin dai primissimi istanti di Tiger King, l’occhio dello spettatore viene catturato dai personaggi che animano questo sottobosco criminale e grottesco, abitato da imprenditori privi di qualsiasi portato morale, lavoratori sfruttati, animalisti che operano in mala fede e un sistema giudiziario non immune da cortocircuiti logici e falle di sistema.

Di episodio in episodio, la linea di confine tra bene e male sfuma progressivamente, i punti fissi si perdono e ogni simulacro di eticità viene spazzato via; non ci sono eroi, e neppure personaggi portatori di messaggi positivi in toto: siamo ben lontani dalla carta d’intenti che dovrebbe ispirare un tradizionale documentario di divulgazione ambientale.

Il fulcro saliente delle vicende è piuttosto la disputa ideologica, umana e legale che vede contrapposti Joe Exotic, al secolo Joe Maldonado-Passage, proprietario del Greater Exotic Animal Park di Wynnewood, Oklahoma, acceso repubblicano e allevatore di tigri più prolifico negli Stati Uniti, e la sua controparte, Carole Baskin, attivista per i diritti degli animali e promotrice del Big Cat Rescue, uno zoo no profit (perlomeno nella forma, poiché sostanzialmente genera guadagni vertiginosi, incassando generose finanziamenti pubblici) con sede vicino a Tampa, in Florida.

Carole critica l’operato scellerato di Exotic che, per tutta risposta, tenta di infangare il nome della propria contendente ricorrendo a ogni mezzo, in primis tentando di riaccendere l’interesse dell’opinione pubblica verso il suo passato poco limpido e organizzando una campagna di diffamazione volta a presentarla come fautrice della controversa morte del marito.

Nel corso degli anni, la disputa tra i due (inaugurata nel 2006, quando la Baskin pubblicò un articolo di denuncia contro le pratiche non propriamente ortodosse di Joe) deflagra in un vero e proprio legal drama, scandito da un copioso hate speech portato avanti sui canali social, minacce di morte più o meno esplicite, un probabile tentato omicidio e una causa giudiziaria milionaria.

Carole Baskin, attivista e proprietaria del Big Cat Rescue
Carole Baskin, attivista e proprietaria del Big Cat Rescue

Vietato empatizzare

La scrittura brillante della serie potrebbe indurre lo spettatore a empatizzare con i personaggi ma, adottando uno sguardo chirurgico e distaccato, questo difetto di percezione viene meno col dipanarsi degli eventi.

Del resto, Tiger King è un prodotto vincente proprio perché disconosce sin dal principio la tradizionale dicotomia buono-cattivo.

Non intende prendere parte in seno a un conflitto, quanto piuttosto cogliere l’occasione per fornire un ritratto spietato, quasi verista, di una provincia americana talmente folle da sembrare irreale.

Joe è l’archetipo del redneck arricchito (lui stesso non ha problemi a definirsi “un bifolco dell’Oklahoma con il mullet, omosessuale e poligamo“), l’americano che ha sfondato la barriera della working class proiettandosi verso i piani alti della piramide sociale, pur se avvalendosi di mezzi a dir poco discutibili.

Un uomo privo di qualsivoglia coordinata umana e culturale che, tuttavia, riesce a trarre profitto dalle storture di un sistema che gli permette di accumulare capitale e di estrarre forza-lavoro dai muscoli e dai bisogni di un sottoproletariato costretto a tirare a campare con mezzi di fortuna, composto principalmente da tossicodipendenti in cerca di riparo e immigrati privi di mezzi di sussistenza.

Tiger King
Tiger King, Joe Exotic, al secolo Joe Maldonado-Passage, proprietario del Greater Exotic Animal Park di Wynnewood, Oklahoma

Dall’altro lato della barricata, invece, Carole Baskin, che in linea teorica dovrebbe rappresentare il bene, conserva più di uno scheletro nell’armadio: al netto delle dubbie circostanze relative alla morte del marito (non ancora provate in sede processuale), anche le sue pratiche sembrano distaccarsi dagli orizzonti di legalità e coerenza di cui si fa portabandiera: non paga i propri collaboratori pur ricevendo sovvenzioni milionarie e viene meno agli stessi principi ideologici che pretende di veicolare, trattando gli animali in cattività in maniera non propriamente accomodante e traendo sussistenza da quello stesso male che si propone di abbattere.

In definitiva, la sensazione che si prova guardando Tiger King è simile a quella che si potrebbe percepire durante la lettura di un libro di Cormac McCarthy, la visione di un film dei Coen o di una di quelle serie che, negli ultimi anni, hanno rimaneggiato quella materia (Breaking Bad su tutte): ne ripercorre ambientazioni e stilemi.

Durante la visione, le atmosfere marcatamente pulp sembrano quasi riecheggiare gli spazi di Fargo No Country for Old Men; i personaggi sono talmente marci, gretti e cattivi (al limite del caricaturale) da ricordare gli abitanti di Craw Country, la cittadina dell’Alabama in cui prendono corpo le vicende di Southern Bastards, la serie a fumetti scritta da Jason Aaron e disegnata da Jason Latour.

Con la differenza che, in Tiger King, è tutto reale.

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Giornalista freelance, scrive o ha scritto di politica, letteratura e ambiente su varie riviste, tra cui Dinamopress, The Vision, La Stampa - Tuttogreen, le edizioni italiane di Jacobin e Forbes e, di tanto in tanto, collabora con la testata brasiliana Outras Palavras. Ha conseguito una laurea in scienze diplomatiche internazionali e, non appena possibile, vorrebbe ricominciare a studiare. Nel tempo libero mangia, legge, scrive, corre e strimpella (con scarsissimi risultati) la chitarra.

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