L’animale abusato, saggio di Enzo Lavagnini, parte del catalogo della Mostra BESTIALE! ANIMAL FILM STARS aperta fino all’8 gennaio 2018 presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino, curata da Donata Pesenti Campagnoni e Davide Ferrario. Si ringrazia il Museo e la casa editrice Silvana, per la concessione.
“Il 19° secolo ha visto la fine della schiavitù e della tortura impiegata su larga scala. Il 20° secolo ha affrontato il tema dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei bambini. Ora possiamo sperare e impegnarci per un 21° secolo che riconosca i diritti fondamentali dell’ambiente e degli animali” – Frédéric Back
Il regista scandinavo Lasse Hallström (“La mia vita a quattro zampe”, 1985, “Hachiko”, 2009), praticamente “cresciuto con i cani dall’età di 7 anni”, come rivela al Corriere della Sera (18 gennaio 2017) in occasione dell’uscita in Italia del suo film “Qua la zampa” (“A Dog’s Purpose”), alla domanda: “Come è stato dirigere i cani?”, dichiara: “Il nostro addestratore li ha allenati per 4 mesi per fare quello che c’era scritto nella sceneggiatura. C’erano tre cani per ogni cane protagonista, due di riserva: se uno era stanco subentrava l’altro. Io spiegavo all’addestratore la scena e lui prendeva da parte il cane: in due minuti gli insegnava a fare quello che avevo chiesto”.
Le, sicuramente autentiche, rassicurazioni di Hallström non lo hanno certo tenuto al riparo da critiche per questo film a causa del trattamento riservato ai cani sul set, almeno stando a quanto di controverso emerge dal web. Letteralmente migliaia di visualizzazioni, nei giudizi delle quali si dividono il campo elogi per il film ed insulti per delle imposizioni subite dagli animali. Secondo The Hollywood Reporter poi, l’Universal Pictures avrebbe cancellato la premiere di Los Angeles del film proprio in coincidenza con la messa on line di un video di denuncia.
Siamo agli esordi del 21° secolo, quello che il disegnatore d’animazione, vincitore di Oscar, animalista Frédéric Back (“L’uomo che piantava gli alberi”) auspica sia “dedicato” al riconoscimento dei diritti fondamentali dell’ambiente e degli animali, e ci accorgiamo -nonostante quello che potrebbe essere legittimo credere- che c’è ancora tanta strada da fare.
Dichiara Danilo Mainardi al Corriere della Sera (13 luglio 2012): “Noi esseri umani veniamo al mondo con una forte curiosità per tutti gli animali, curiosità che è scritta dentro nei nostri geni (…). La nostra specie, per decine di migliaia di anni, è vissuta immersa nella natura e in quel lungo spazio temporale era indispensabile, per la sua sopravvivenza, saper interagire (..). È per questa necessità di sapere che ancora nasciamo con questa curiosità. La vediamo infatti ancora molto forte nei nostri bambini…”.
Va nella stessa, consapevole direzione, ossia di presistenza di un ancestrale rapporto tra umani ed animali, una dichiarazione dell’“istintivo”, “visionario”, sempre contro corrente, Werner Herzog a Rolling Stone: “Gli animali sono molto importanti nei miei film. Ma non astrattamente, perché un particolare animale significhi questo o quello, io ho solo una chiara consapevolezza che hanno un peso enorme nei film”. Herzog si riferisce all’universo simbolico di riferimento relazionato agli animali, l’ampio spettro di significati che va dal “bene” al “male” assoluti, con tutte le gradazioni possibili, dalla “Bestia” (King Kong and co.) al “Peluche” (esemplificato con la produzione Disney).
Questa spontanea “curiosità” dell’uomo deve però fare i conti con alcune contraddizioni, certo derivanti da antropocentrismo ed antropomorfismo, perni centrali della “rappresentazione” cinematografica.
Sicuramente in molti sono diventati sensibili alle cause degli animali per il coinvolgimento emotivo scaturito dalle avventure di Lassie, o da quelle di Flipper, per il cavallo di Zorro, per la Cita di Tarzan, per la leonessa Elsa di “Nata Libera”. Poi però è giunto per ognuno il momento di riflettere sulle vere condizioni di vita sopportate da quegli animali sul “set”.
Si tratta in vero di un processo “etico” di consapevolezza che la comunità mondiale ha cominciato a fare da tempo, soprattutto dall’avvento dei movimenti per la difesa e la dignità degli animali in poi. Nel tempo ci si è infatti sempre più resi conto che: “Trattare gli animali con rispetto non è un atto di bontà, ma di giustizia”. (Tom Regan, “I diritti animali”).
Eccoci allora ad affrontare questa grande contraddizione in termini: la naturale fascinazione che come specie abbiamo per il mondo animale, versus la necessità di “raccontare”, che fa anche essa parte della storia dell’umanità.
L’antropomorfismo, e cioè l’attribuzione di caratteristiche e qualità umane agli animali, insito nelle storie, condiziona chi realizza film e “costringe” gli animali. E l’antropomorfismo ha radici profonde, impensabili da divellere: poggia sulle leggende, sulle fiabe popolari, su Fedro ed Esopo, molto ma molto prima che su Disney.
“Una volpe affamata, come vide dei grappoli d’uva che pendevano da una vite, desiderò afferrarli ma non ne fu in grado. Allontanandosi però disse fra sé: «Sono acerbi». Così anche alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze”. Esopo, “La volpe e l’uva”. Una volpe “contrariata”? Un esempio allegorico di come ci piace raccontare gli animali, ossia come se avessero i nostri stessi comportamenti.
Eppure abbiamo osservato e studiato gli animali fin d’alba dell’umanità.
Siamo o non siamo consapevoli che l’animale non agisce come noi? “Chuang-Tzu e Huizi stavano passeggiando lungo la diga delle cascate Hao quando Chuang-Tzu disse, “Vedi come i pesciolini escono dall’acqua e saltano dove gli pare! Questo è quello che davvero piace ai pesci!” Huizi disse, “Tu non sei un pesce – come fai a sapere quello che piace ai pesci?“. (Le storie di Chuang-Tzu).
Ancora: cosa pensano davvero gli animali? “Jurassic World” (2015) sprizza di pragmatismo americano a riguardo: “Questi animali pensano: devo mangiare, devo cacciare, devo… Devi immedesimarti con almeno una di queste cose”. Chris Pratt, ex-marine, a capo di un gruppo di Velociraptor.
Derzu Uzala – Insegnamenti di un vecchio Maestro a CinemAmbiente
Gli animali “agiscono”, non “rappresentano” (mettere in scena, recitare) nulla. Questo, se escludiamo quello che simboleggiano (Derzu Uzala il cacciatore di Kurosawa teme lo spirito della tigre Amba che rappresenta la forza della natura). Gli animali non si “immedesimano”; fanno quello che vogliono fare. Con modalità non riconducibili alle nostre. E provano emozioni quanto e più forti delle nostre: “Ogni volta che dicevo alla mia cocker spaniel Tifano, il primo cane della mia vita, che saremmo usciti a fare una passeggiata, lei esplodeva in una danza di festeggiamenti che includeva una corsa frenetica tutt’attorno alla stanza, sempre in senso orario e a velocità sempre più alta, come se la sua gioia fosse incontenibile”. Jeffrey M. Masson (“I cani non mentono sull’amore”).
Al contrario, lo showbiz ha la continua necessità di rappresentare: protagonista assoluta è la “storia”, la narrazione, che deve essere resa al meglio di quanto progettato. Presa com’è dalla smania indefettibile della lavorazione e dagli obblighi dei contratti, la parte “cinema” dell’industria dello spettacolo talvolta vede il rispetto dei diritti degli animali soltanto come una sorta di “complicazione” produttiva, di cui sfugge la ragione etica, cui adempiere per non compromettere gli incassi. L’animale inoltre è imprevedibile molto più di quanto uno storyboard o una sceneggiatura possano permettersi. Quasi per paradosso, il cinema racconta storie che “sorprendono”, ma lo fa scansando gli “imprevisti” mentre si gira il film.
L’esigenza della “rappresentazione” s’affaccia anche in milioni di video auto-prodotti e messi in rete che mostrano “esibizioni” di animali domestici. Talvolta fatte con garbo, talvolta clownesche e poco rispettose.
Sfuggendo a logiche “industriali”, per certo un cinema più “artigianale” può permettersi più attenzione. Sta ovviamente molto alla sensibilità del regista. Ci viene subito in mente l’esempio delicato di “Au hasard Balthazar” (1966) di Robert Bresson, un film sui maltrattamenti subiti dall’asino Balthazar. Oppure film d’osservazione naturalistica, come “La storia del cammello che piange” o “Il popolo migratore”. Ma per il resto?
Nei vecchi film di Tarzan i rinoceronti di scena venivano effettivamente abbattuti; accadeva lo stesso anche agli esausti cavalli di tanti western; il “Ben Hur” del 1959 chiuse la lavorazione con un tragico bilancio di 100 cavalli abbattuti, anche se soltanto zoppicavano. In “Ombre rosse” (1939) fili attaccati alle zampe dei cavalli ne provocavano la caduta violenta e spettacolare. In “Rambo” (1982) sono presenti situazioni brutali con ratti uccisi. Ne “I cancelli del cielo” (1980) molti animali sono stati uccisi. In “Apocalypse Now” (1979) si vede l’abbattimento di un bue.
E purtroppo le cose non cambiano con l’avvento del 21° secolo. Si tratta di “condotte” sopravvissute al tempo ed ai controlli delle varie “label” di garanzia sulla lavorazione, affidate ad associazione di protezione degli animali.
2012: un’inchiesta informa che durante la lavorazione del film di Peter Jackson “The Hobbit: Un viaggio inaspettato” 27 animali hanno trovato la morte, e tra di essi pecore e capre perite per disidratazione. Uno dei film più popolari di Disney “Pirati dei Caraibi: La maledizione della prima luna” (2003) ha dovuto far fronte a segnalazioni di maltrattamento degli animali segnalati da The Hollywood Reporter. Sul set de “Il signore dello zoo” (2011) una giraffa è morta. Altri maltrattamenti, stavolta ai lupi, sono stati denunciati dalla PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) a proposito del film “The Grey” (2011).
Anche quando si utilizzano immagini generate al computer (CGI, computer-generated imagery), o l’animatronics, il parametro della narrazione è sempre l’antropomorfismo. Ma almeno la tecnologia evita la costrizione fisica degli animali.
Prendiamo il caso di “Noah” (2014). Secondo il regista Darren Aronofsky: “E’ finita un’epoca. Non è facile lavorare con animali veri e, col passare del tempo, sta diventando sempre più sbagliato. Anche dal punto di vista tecnico, è difficile”, osserva l’autore, attivo sul fronte animalista, che con gran sfoggio di fantasia e la CGI ha potuto ricreare l’intero regno animale ospitato nell’arca di Noè.
Il regista di “The Legend of Tarzan” (2016), Peter Yates ha dichiarato: “Con la CGI, dopo aver seguito attentamente il comportamento degli animali puoi “riprodurli”– è impossibile dirigerli, come sapete. Oltre ad essere non appropriato: costringere gli animali a fare una performance contrasta anche coi valori morali del film. La CGI permette di fare cose per mostrare il mondo vivente che non era possibile fino a pochi anni fa”.
Nelle varie classifiche fatte da appassionati, tra i film più “etici” nei confronti degli animali, si trovano in sempre maggiore quantità dei cartoni animati. Osserverebbe forse a ragione Frédéric Back: “Ciò che succede con i film d’animazione è che sono facilmente accessibili a tutti. Possiamo darvi sfogo alla nostra la fantasia, ma anche iniettarvi le nostre idee e convinzioni”.
Tutto il cinema in sé è “prezioso”, quello “tradizionale”, quello con l’uso della CGI, l’animatronics, quello dei disegni animati: il cinema nel suo insieme deve soprattutto trovare una strada nuova, autentica, per raccontare gli “esseri viventi” animali in modo “vero” e sempre più rispettoso, non una immagine vaga, un simulacro, un cliché.