Al 37° Torino Film Festival, Milad Tangshir ha presentato il suo film d’esordio, “Star Stuff”. Un documentario per vedere il cosmo e capire la Terra.
Il cinema è sogno e delirio. È delirio febbrile, soprattutto in periodo di Festival. L’unica cura è quella di immagazzinare nella retina, nella mente e nel cuore, più immagini possibili. E il solo modo per averle è correre da una sala all’altra. Da una proiezione all’altra, da un sogno all’altro. Per non perdersi l’inizio del film, per non perdere immagini.
Il cinema è sogno a occhi aperti a schermo panoramico. Vedere il proprio nome e il proprio film proiettato e immenso è il sogno. Per chiunque ami il cinema, sia da spettatore che da realizzatore. Come per uno sportivo poter salire sul podio con la medaglia d’oro.
In tanti ci provano. Alcuni ce la fanno subito, altri dopo qualche tentativo. E tanti sacrifici. Ognuno ha il suo momento. Quest’anno è venuto il momento per Milad Tangshir. Ogni volta che correva da una proiezione all’altra del Torino Film Festival, sognava di vedere un giorno il suo nome dopo la sigla “TFF”. Quest’anno, finalmente, c’è riuscito con il lungometraggio d’esordio Star Stuff. Il film è stato prodotto dalla Rossofuoco di Davide Ferrario e Francesca Bocca con la collaborazione di Paolo Manera per la Film Commission Torino Piemonte. È stato presentato in anteprima al 37 Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile.
Classe 1983 Milad, dopo gli studi di Ingegneria a Tehran e aver fatto parte della band Ahoora, si trasferisce a Torino nel 2011. Si trasferisce per iscriversi al Dams e studiare cinema. Si laureerà nel 2014 con una video-tesi su uno dei suoi registi preferiti, Martin Scorsese: The Lessons of the Wolf. In essa, unendo tecnica e didattica, compie un’analisi accurata di The Wolf of Wall Street (2013). Lo fa inquadrandolo all’interno della filmografia e poetica del regista italoamericano. Un lavoro di cuore in cui il confine tra ammirazione e immedesimazione si fanno evidenti. Torino è la sua seconda casa. E l’aria del cinema, fin da subito, l’ha respirata. E non si è mai fermato.
Già dal 2012 firma numerosi medi e cortometraggi sia di finzione che documentari. Tutti presentati in festival nazionali e internazionali con successo. Fra essi si possono citare Displaced (2016), Premio della Giuria per Lavori in Corto 2016, Premio Speciale Polo del ‘900 Filmare la Storia. Oppure 13 seconds (2018), presentato al Festival da Bienal International de Cutriba in Brasile.
Recentemente ha presentato alla 76ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia un lavoro nella sezione Virtual Reality. VR Free (We Are Free), un’immersione nei luoghi di detenzione girato presso la Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. Il progetto, sostenuto dalla Film Commission Torino Piemonte, è stato attualmente selezionato per il Sundance Film Festival. Si tratta della prestigiosa rassegna statunitense che, dagli anni ’70, promuove il cinema indipendente di tutto il mondo.
Emerge nei suoi lavori una grande attenzione per i luoghi e per gli spazi. Che cercano di essere abbracciati il più possibile dalla macchina da presa. Essa si fa occhio e lo sguardo diviene totalizzante. Riesce a passare dalle riprese aeree ai solchi microscopici della pelle. Ciò è anche Star Stuff. Esso inizia proprio con la macchina da presa che si apre, letteralmente, come un occhio. Con delle “palpebre” che sbattono. Che rimane “accecata” dalla luce del sole. Dopo di che, una panoramica a schiaffo dall’alto verso il basso ci porta in una landa deserta. Seguono una serie di riprese di paesaggi provenienti da un altro mondo. E di soggettive che si muovono a fatica fra i sassi e i passaggi rocciosi cotti dal sole.
Ma è il tema del film non è il sole, o la Terra. Ma le stelle. È il racconto di tre telescopi: nel deserto di Atacama, in Cile. A Las Palmas nelle Canarie; A Great Karoo in Sud Africa. È la storia di tre uomini che lavorano in questi telescopi. È la storia anche di alcune persone comuni che vivono nelle loro vicinanze.
Quelli che sembrano dei mondi apparentemente lontani si uniscono. Da una parte ci sono gli astronomi, razionali e un po’ sognatori. Dall’altra la gente comune, ancorata a una visione quasi animistica dell’esistere. Le stelle in entrambi i casi diventano schermo per vedere una simulazione dei rapporti umani. Esse ci raccontano, con la loro luce, la loro storia. Una storia fatta di luce morta chissà da quanto. Per spiegare il nostro futuro in cui, pragmaticamente, siamo coscienti della nostra temporaneità.
Lo si dice espressamente: «Noi facciamo quel che facciamo per andarcene da questo pianeta. Il tempo è la spiegazione dell’esistenza» (…) «I telescopi sono macchine del tempo e, per ora, le nostre astronavi» (…) «L’astronomia è capire il passato». Capire il passato per avere un futuro migliore. In questa Terra desolata e prossima al collasso. Umano a causa dell’odio razziale ed ecologico a causa del cambiamento climatico.
Il cosmo è arbitrario e al di sopra di tutto e tutti. Ciò dovrebbe renderci più responsabili. Tramite una visione più cosmica, nel vero senso della parola. Il cielo stellato, così fitto e apparentemente fisso, è uno schermo. Usando quasi uno sproloquio, è il più grande schermo cinematografico. In esso vediamo il passare del tempo in un rettangolo di spazio. Difatti quello che i nostri telescopi vedono è solo il 4% di tutto l’Universo. Quello che il cinema ci propone con ellissi e montaggio, il cielo ce lo propone in diretta. Non è di certo un caso che gli antichi e i filosofi hanno sempre alzato lo sguardo al cielo notturno per ottenere risposte.