Il regno del pianeta delle scimmie – L’eredità tradita di una pacifica convivenza

in Animali|Cinema
Il regno del pianeta delle scimmie – L’eredità tradita di una pacifica convivenza ultima modifica: 2024-05-26T07:10:55+02:00 da Emanuel Trotto
da

Con Il regno del pianeta delle scimmie, torniamo nel mondo ispirato dal romanzo di Pierre Boulle, con le sue implicazioni etiche

Dobbiamo tornare a parlare di scimmie. Dobbiamo tornare sui primati senzienti nati fra le pagine del romanziere francese Pierre Boulle. E aggiungere una postilla a quanto avevamo scritto in passato su Il pianeta delle scimmie. Un romanzo divenuto una saga cinematografica estremamente longeva alla quale si possono aggiungere numerosi tasselli. Può essere considerata, senza ombra di dubbio, un saggio antropologico messo su grande schermo. Bisogna continuare a parlarne perché, come avevamo scritto allora: «più le scimmie cercano di differenziarsi dagli umani, più si comportano come loro […] Come un nuovo ciclo evolutivo senza soluzione di continuità».

The War – Il pianeta delle scimmie: fra ecologismo e utopia

E, con l’uscita de Il regno del pianeta delle scimmie, questa frase diventa chiave di lettura. Si tratta del decimo capitolo ispirato all’universo di Boulle e il quarto della serie reboot iniziata con L’alba del pianeta delle scimmie (2011) fino ad arrivare a The War – Il pianeta delle scimmie (2017). Il regno, diretto da Wes Ball è uscito nelle nostre sale l’8 maggio, distribuito da 20th Century Studios.

Il regno del pianeta delle scimmie
Il regno del pianeta delle scimmie di Wes Ball: il poster.

Torniamo a The War. Eravamo rimasti con la fine della guerra fra primati e umani, con questi ultimi che sono stati letteralmente spazzati via da una valanga. L’uomo era rimasto doppiamente sconfitto nel suo stesso campo: il linguaggio e il progresso. Abbiamo lasciato Cesare (Andy Serkins) e la sua comunità di scimmie in balia di un futuro più sereno, la fine di un’odissea iniziata nelle foreste di conifere della California. Cesare dopo essere divenuto una guida è diventato martire della causa. Il sacrificio necessario come i re sacri raccontati dall’antropologo James Frazer (1854 -1941) affinché la comunità possa rinascere.

2001 Odissea sul pianeta Terra. 50 anni fa il capolavoro di Kubrick. Riflessioni sul vegetarismo e sulla violenza

Il regno si apre con il suo funerale, circondato dalla sua gente e dagli amici più stretti. Fra di essi c’è l’orango Maurice il quale, mentre il fuoco di una pira consuma i resti mortali di Cesare, alza le braccia al cielo. Affianca i pugni, come a stringere un fascio di rametti che, divenendo più spesso, è anche più resistente. Un gesto divenuto il simbolo della lotta e la forza d’autodeterminazione di questo nuovo mondo: «Scimmie, insieme, forti». Con quel gesto, seguito a ruota da tutti, Maurice porta Cesare su un ulteriore piano: quello del mito, la forza fondatrice di un popolo alle sue origini. La trasmissione di una eredità che non deve morire. Con le generazioni tende irrimediabilmente ad annacquarsi e quindi ad essere fraintesa e letta in maniera superficiale.  Ed è così che succederà.

Passano le generazioni. Dopo trecento anni il mondo è cambiato. La compattezza del popolo di Cesare si è sfaldata e le scimmie, in una nuova diaspora, sono oramai disperse in tanti piccoli clan. Uno di questi è quello a cui appartiene il giovane scimpanzé Noa (Oward Teague). Egli è il figlio del capo, e deve partecipare a un rito di iniziazione. È prevista l’unione con un’aquila ammaestrata, nata da un uovo che lui stesso, come gli altri giovani, deve raccogliere dai nidi più alti. Questi si trovano sulle cime impervie dei grattacieli oramai divenute vette di un mondo in cui l’umano è un fantasma lontano. Le sue vestigia sono state di nuovo inglobate dalla Natura che lui stesso aveva sfidato e si era convinto di vincere.

Noa (Owen Teague, a sinistra) con altre giovani scimmie in un scena del film.

L’umanità ha perso anche la sua individualità nel nome, divenendo degli Eco. Ossia un rimbalzo di qualcosa che è morto e scomparso tempo addietro. Esattamente come una stella morente la cui luce risplende nei nostri cieli dopo che ha attraversato gli oceani dello spazio e del tempo. Assistiamo a un evento raro e unico ma che ci permette di alzare lo sguardo e scrutare più lontano.

La comunità di Noa viene attaccata, quasi annientata. I sopravvissuti sono resi schiavi di nuovo come nei secoli passati. Ma non dall’uomo ma da una scimmia. Il suo nome è Proximus Ceasar (Kevin Durand), che si è alzato come re e paladino di una nuova progenie di scimmie. Egli usa le armi dell’uomo, un bastone elettrificato, per costruire il suo regno. Rimanda alle tribù dei latini prima e dei Cesari poi che sono passati dalla conquista di un proprio spazio vitale, fino a creare un Impero. Così Proximus che, come gli imperatori romani si affibbia il nome del grande predecessore, infarcito dallo studio della Storia incanalato dell’umano Trevathan (William H. Macy).

Proximus porta avanti una eredità sfalsata, una conoscenza travisata e che pare aver dimenticato gli insegnamenti del capostipite. Cesare, che era l’opposto dal dittatore descritto da Shakespeare nella tragedia eponima e dalla quale alla scimmia è stato dato il nome. Cesare capiva la necessità di una guida ma rimanendo un leader e non un capo. Un sovrano illuminato e non un despota i cui ideali sono solo dei vuoti proclami e slogan.

Il regno delle scimmie
Proximus Ceasar (Kevin Durand) in un’altra scena de Il regno del pianeta delle scimmie.

«Scimmie, insieme, forti» rimane solo una frase ad effetto, un pretesto per assoggettare. La conoscenza, quella vera, rende liberi, ma la conoscenza parziale e incasellata provoca solo paura, ignoranza e manipolazione. Avviene una strumentalizzazione della distruzione. Questa viene gradualmente perfezionata da una bocca all’altra, da una mente all’altra. La distruzione diventa gradualmente più efficace, e quindi anche più letale. Come la bomba atomica e la bomba H, spettro di morte nel clima di guerra fredda in cui Boulle aveva scritto il suo romanzo.

La scimmia che ha capito l’universo, il libro di Steve Stewart-Williams sull’evoluzione della mente e della cultura

Rivedendo tutta la saga de Il pianeta delle scimmie (1968 – 2017) e andando a vedere Il regno tornano alla mente queste riflessioni. E torniamo di nuovo a Frazer il quale ne Il ramo d’oro scrisse: «Quale colore avrà la ragnatela che il fato sta ora intrecciando sul telaio del tempo? Sarà bianca o rossa? Non lo sappiamo. Una pallida, tremante luce illumina le parti già ordite. Il resto è avvolto nell’oscurità, nella nebbia».

Il regno del pianeta delle scimmie – L’eredità tradita di una pacifica convivenza ultima modifica: 2024-05-26T07:10:55+02:00 da Emanuel Trotto

Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo mail non verra pubblicato

*

Ultimi articolo di Animali

Go to Top