Palazzina Laf, film d’esordio di Michele Riondino sull’Ilva di Taranto, è fra i vincitori dei David di Donatello 2024
La Laf, era una palazzina, o meglio un capannone in disuso all’Ilva di Taranto, la grande acciaieria inaugurata nel 1965 dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in pieno boom economico. La palazzina era vicino al Laminatoio a freddo (da qui l’abbreviazione). In esso c’erano scrivanie vuote, carte ammuffite, posaceneri e un solo telefono ricevente. Chi era destinato lì, secondo i titolari, riceveva una “promozione”. Questo era quanto che veniva fatto credere gli altri dipendenti dell’acciaieria, alimentando così dissapori e invidie varie.
Ma la realtà era ben diversa. Infatti si trattava di un vero e proprio contenitore di lavoratori scomodi per l’azienda. Scomodi perché troppo qualificati, o che si rifiutavano di piegarsi alle richieste scomode (per davvero) della dirigenza. Come poteva essere, ad esempio, manomettere il programma usato per segnalare il livello minimo consentito di polveri emesse. Si veniva messi così davanti ad una scelta: passare da impiegato qualificato a semplici operai, oppure essere confinati alla Laf. Spesso e volentieri, per integrità, si resisteva all’inedia all’interno della palazzina. Altri cedevano e preferivano sporcarsi le mani in settori in cui non erano minimamente qualificati. Perché almeno si lavorava.
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Era il 1998 quando viene alla luce questa situazione. Un caso di mobbing in quanto anche l’inattività forzata può causare forme di malattie psicofisiche invalidanti. La pressione psicologica ha portato molti lavoratori a tentare persino il suicidio. L’Ilva teneva sequestrati 79 lavoratori nella palazzina. L’edificio venne smantellato dal Magistrato di Taranto dopo una lettera sul Quotidiano di Puglia del 6 novembre del 1998. Una lettera scritta dalla direttrice del Centro di Salute Mentale, Marisa Lieti, in cui denunciava, per la prima volta questa storia.
C’è un processo e ci sono delle condanne: il patron dell’Ilva, Emilio Riva, a due anni di reclusione; altri dieci dirigenti sono stati giudicati per pene minori. Fra di essi vi era Luigi Capogrosso, futuro direttore dello stabilimento. E condannato nel 2022 a vent’anni di carcere in quanto fra i possibili responsabili del disastro ambientale causato dall’Ilva. Può essere questo materiale per un’altra storia, ma non lo è. Il disastro ambientale e la vicenda della palazzina sono una cartina da tornasole di un sistema produttivo che non vuole fare a meno del facile compromesso. Un mondo fatto di silenzi e di polvere sotto al tappeto che si accumula fino allo strabordare.
Questa era proprio la tesi sostenuta dallo scrittore e giornalista Alessandro Leogrande (1977 – 2017). Leogrande nel 2013 pubblica il libro Fumo sulla cittàin cui racconta la sua città, Taranto. Da questo libro l’attore Michele Riondino (Fortapasc 2009 di Marco Risi) ha preso l’ispirazione per il suo film d’esordio, Palazzina Laf dedicandolo al giornalista che avrebbe dovuto collaborare anche alla sceneggiatura. Tarantino di nascita, Riondino ha presentato il film nella sezione Grand Public alla 18° Festa del Cinema di Roma uscendo in sala a partire dal 30 novembre per BiM Distribuzione.
Presentato con cinque candidature ai 69° David di Donatello, alla cerimonia del 3 maggio ne vince tre. Sono miglior attore protagonista(allo stesso Riondino), miglior attore non protagonista (a Elio Germano) e migliore canzone originale a Diodato con il brano La mia terra.
La vittoria di Palazzina Laf, accodata a quelle di Io capitano di Matteo Garrone e C’è ancora domani di Paola Cortellesi, è un passo importante per il cinema italiano. Viene riconosciuta una volta di più la necessità di raccontare storie d’impegno come immigrazione, violenza di genere o lo sfruttamento dei lavoratori. I volti degli attori tornano ad essere le maschere degli “ultimi”.
Una di queste è quella di Caterino Lamanna, il protagonista di Palazzina Laf interpretato dallo stesso Riondino. È un uomo grezzo, sempliciotto, arrivista e qualunquista. In altre parole è manipolabile, frutto di una classe operaia che ha messo da parte i suoi ideali. Vive in un casolare in campagna con poche bestie che gli muoiono letteralmente davanti. È fidanzato con Anna, una giovane romena: hanno in mente di sposarsi e di trasferirsi in città. Addetto alla bonifica delle vasche dello stabilimento viene notato dal capo del personale, Giancarlo Basile (Elio Germano) che lo avvicina.
Questi offre a Lamanna la possibilità di uno scatto di carriera. Ciò avviene con un cambiamento del contratto da operaio a caporeparto, con assegnazione di una auto aziendale. Quando Lamanna viene a sapere della Laf, chiede e ottiene di esserci trasferito a patto che riferisca tutto quello che accade al suo interno. Per Lamanna è un sogno: ossia lavorare senza lavorare. Caterino è la vittima designata di questo gioco al massacro nel nome dell’impianto. Il complesso è come un Moloch (l’antica divinità mesopotamica che esigeva costanti sacrifici umani) che si staglia sul panorama. Le sue ciminiere e le sue tubature si vedono da lontano, in qualsiasi punto si guardi. Un’immagine lontana e sfocata quando viene inghiottita (metaforicamente) dalle fiamme di un falò.
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Un mostro odiato, ma allo stesso tempo agognato. Un mostro benedetto. Non è un caso che il film si apra sulle immagini all’interno della Parrocchia del Gesù Divino Lavoratore della città. In essa vi è un grande mosaico di Gesù che benedice i lavoratori e le ciminiere dell’Ilva. Sotto l’altare c’è una bara con elmetto sopra. È il funerale di un’altra vittima, magari qualcuno che non doveva neppure essere lì quando è morto. Un uomo di cui non conosciamo il nome, uno fra tanti di quelli che, agli occhi dello stesso Lamanna, «si lamentano sempre». E per questo divenuto invisibile.