Il pianeta in mare, Marghera fra passato e voglia di futuro a Venezia76

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Il pianeta in mare, Marghera fra passato e voglia di futuro a Venezia76 ultima modifica: 2019-09-08T08:00:39+02:00 da Emanuel Trotto
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«Che cosa farò domani?» Si tratta di una domanda che ci si pone spesso. Rimanda ad un futuro più vicino e immediato. Ma anche a qualcosa di più remoto. Porta a metterci in discussione. A capire le ragioni di vita. Spesso la si pone quando si è ad un capolinea. Quando la terra ti manca da sotto i piedi. Si tratta di un altro modo di dire: «E adesso?». Quando cerchi vanamente delle certezze. Porsela anche in situazioni inimmaginabili, è la base per ricominciare a vivere, a rimettersi in moto. Quando ci si medica le ferite e si prova a guardare indietro.

Una domanda del genere se la pone, a intervalli di decenni, la popolazione di Marghera. Una specie di frontiera fra il mare e la terra. Un Pianeta a sé che si trova a cinque chilometri da Piazza S. Marco a Venezia. Si tratta del frutto di una bonifica, del prosciugamento delle paludi effettuato a partire dal 1918. In questo spazio strappato al mare si concentra uno dei maggiori poli industriali d’Italia e d’Europa. Oltre duemila ettari, un’estensione di due volte superiore alla città sulla quale si affaccia. Una struttura che dà lavoro a migliaia di persone. Un posto che, negli anni Sessanta ha accolto i migranti provenienti dal sud Italia. Ora accoglie chi proviene da Bangladesh, dall’est Europa o dall’Africa. Ci sono silos alimentari, raffinerie, cantieri per costruire le imponenti navi da crociera.

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Marghera è stata anche teatro di uno dei casi più famosi di avvelenamento industriale. A partire dagli anni Cinquanta l’industria petrolchimica era quella più sviluppata. In esso si produceva il PVC, una resina termoplastica dovuta alla polimerizzazione (sintesi chimica) del CVM (cloruro di vinile). Esso serve per lavorare il petrolio e produrre composti di diverso tipo (detergenti, fertilizzanti, ecc.). La produzione ha causato danni consistenti all’ambiente, ma anche la morte di numerosi lavoratori a causa dell’esposizione al CVM.

In particolare sono stati scoperti casi di acroosteolisi (malattia degenerativa delle ossa) fra gli addetti al CVM nel 1964. Nel corso di uno studio portato avanti, fra gli altri, dall’Institute Health dell’Università del Michigan, nel 1969 si è individuato un collegamento diretto fra il cloruro di vinile e il cancro. Un cancro che colpisce pure fegato, reni e tessuti connettivi. L’effettività di queste ricerche e la relativa causa contro il Petrolchimico di Porto Marghera si porta avanti fino al 2004. Un lungo processo concluso con una condanna detentiva nei confronti di cinque ex dirigenti salvo poi essere sospesa nel 2006 con sentenza confermata dalla Cassazione.

Nel nuovo documentario di Andrea Segre, Il pianeta in mare, presentato Fuori Concorso alla 76ma Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, questa vicenda è assunta. É parte della storia, un capitolo, una delle tante cicatrici. Il film vuole raccontare il passato, il presente e cerca di porre degli scenari per il futuro. Racconta il passato tramite filmati d’archivio dell’Istituto Luce, racconta il presente seguendo le storie di alcuni personaggi. Fra essi un operaio del Bangladesh, la tenutaria di un ristorante sull’autostrada, dei pescatori di vermi, due giovani che portano avanti un progetto di startup. Segre li segue con discrezione. Ci pone la loro storia davanti così com’è. Senza forzature. Senza patetismi.

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Andrea Segre, fra documentari e film di finzione è da molti anni ospite ad alcuni dei principali Festival cinematografici. I suoi tre principali lungometraggi sono stati tutti presentati alla Mostra del Cinema di Venezia (Io sono Li, 2011; La prima neve, 2013; L’ordine delle cose, 2017). Fra i vari Festival in Europa possiamo citare a Torino (Magari le cose cambiano, 2009, Vincitore del Premio “Avanti”), Locarno (IBI, 2007 nella Selezione Ufficiale) o Annecy (La prima neve, Vincitore del Grand Prix). Ha vinto numerosi Nastri d’Argento, e alcuni suoi film hanno una distribuzione in 45 paesi.

Segre ancora una volta racconta la nostra realtà industriale e del lavoro imbastendo un plot profondamente umanista. Uno dei motivi che lo ha spinto a girare il documentario è anche cercare di rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio. «Che cosa farò domani?». Perché, oggi più che mai, questa domanda è presente nella realtà industriale italiana. In un periodo come questo è più che mai importante raccontare anche una sorta di “epica” del lavoro. Il racconto del lavoro mette le mani su cosa si produce davvero e lo riporta al centro della vicenda umana e politica. Le persone. Persone che vivono il presente e ricordano il passato.

Perché guardando indietro nel passato, nei propri errori che si costruisce il futuro. Tal senso è molto chiaro in uno degli episodi del film. Ovvero l’esplorazione, da parte di due ex operai del Petrolchimico dell’ex stabilimento. Oramai restano solo immensi silos arrugginiti, macchinari, quadri elettrici abbandonati. Tubature con ancora palline di PVC al suo interno. Le impalcature che non reggono più niente. I laboratori interni sono fuori uso. Ma ci sono ancora strumentazioni e provette come se fossero appena stati abbandonati. Come se non fossero passati venticinque anni da quando sono stati toccati l’ultima volta. Come una domenica improduttiva. Lì ad accumulare polvere. I silos vengono letteralmente divorati dalle ruspe. Ma non è una distruzione fine a se stessa.

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C’è volontà di riqualificare, di restare e andare avanti. Alle immagini di repertorio, agli inizi del sogno di Marghera, si alternano quelle moderne. Con maschere e tute protettive e infiniti cavi e tubature. Ma ci sono anche i giovani delle start up del gruppo telematico Vega. Loro, dall’Europa vogliono ridare lustro al territorio. Riportarlo a nuova vita a nuovi ricordi. Dice Segre «Negli ultimi due anni a chiunque abbia detto che sto lavorando ad un film su Marghera la risposta era: ‘Ah perché esiste ancora Marghera?’. (…) Crediamo che in quegli spazi non ci sia più nulla, più nessuno. Invece non è così. Un regista documentario ha un importante compito: portare le persone lì dove non possono o non vogliono entrare.» Anche perché, si potrebbe aggiungere come postilla, una battuta del film: «Che brutta cosa la memoria che se ne va».

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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