Black carbon in Artico

Black carbon in Artico, le ultime scoperte

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Black carbon in Artico, le ultime scoperte ultima modifica: 2024-04-05T06:42:58+02:00 da Marco Grilli
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Black carbon, un nuovo studio condotto dai ricercatori del Cnr-Isp ha rivelato i meccanismi che controllano il trasporto in Artico di questo inquinante atmosferico

Il black carbon, un inquinante atmosferico che contribuisce al cambiamento climatico, è presente pure in Artico. Un importante studio condotto dai ricercatori dell’Istituto di scienza polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), in collaborazione con l’Università di Stoccolma e l’ETH di Zurigo, è riuscito a scoprire i meccanismi che presiedono al suo trasferimento in questa regione polare, oltre a stabilire la variabilità delle sue concentrazioni nelle diverse stagioni polari.

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Gli esiti della ricerca sono stati pubblicati come highlight su Atmospheric Chemistry and Physics. I suoi autori, Stefania Gilardoni, Dominic Heslin-Rees, Mauro Mazzola, Vito Vitale, Micheal Sprenger e Radovan Krejci, hanno gettato le basi per una comprensione più approfondita dell’impatto di questo componente del particolato fine atmosferico (PM2,5) sul clima regionale e globale.

Il black carbon

Il black carbon (BC), o nerofumo, è definito come l’insieme delle particelle carboniose in grado di assorbire luce con lunghezza d’onda caratteristica nello spettro del visibile (380÷760 nm). Così chiamato per il suo colore scuro, è particolarmente ricco di carbonio elementare ed organico e contribuisce a formare il particolato fine (PM2,5), oltre ad essere uno dei costituenti principali della frazione ultrafine del particolato (PM0.1).

Si tratta di un inquinate primario emesso sotto forma di fuliggine da sorgenti naturali e antropiche, in seguito alla combustione incompleta di combustibili fossili e biomasse. “La maggior fonte di BC nelle aree urbane è individuabile nel traffico veicolare da motori a combustione interna (prevalentemente diesel), a questo si può aggiungere il riscaldamento domestico a carbone o legna, la combustione di biomasse in agricoltura, gli incendi boschivi, ecc.”, comunica l’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (ARPAT).

Esposizioni a breve ed a lungo termine al BC possono essere nocive per la salute, soprattutto per il sistema respiratorio e per quello cardiovascolare. Le nanoparticelle del BC possono infatti veicolare sostanze cancerogene e genotossiche all’interno dell’organismo umano, quali gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e i metalli. C’è di più: il BC può contribuire al riscaldamento globale, poiché aumenta l’assorbimento della radiazione solare, diminuendone il potere riflettente. Influenzando il bilancio radiativo terrestre per via delle sue proprietà ottiche, il nerofumo ha quindi conseguenze dirette anche sul clima.

Gli esiti della ricerca

Finanziato dal Programma di ricerche in Artico (PRA) del Ministero dell’università e della ricerca (MIUR), questo studio è stato realizzato grazie al supporto dello Svalbard integrated observing system (SIOS) network.

I ricercatori hanno misurato continuativamente per oltre quattro anni la concentrazione di black carbon in Artico, studiando i suoi cambiamenti nel tempo. Quest’ultima infatti, nella regione polare, dipende da vari meccanismi che ne controllano il trasporto dalle medie latitudini, ovvero dalle aree dove si trovano la maggior parte delle sorgenti.

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“Questo composto, prodotto dalle attività umane e dagli incendi alle medie e basse latitudini, può sopravvivere a lungo in atmosfera e raggiungere la regione artica dove contribuisce al riscaldamento dell’atmosfera e alla fusione accelerata di neve e ghiaccio. Attualmente i modelli in uso non riescono a riprodurre la variabilità temporale del black carbon in Artico, rendendo difficile la capacità di predirne gli impatti sul riscaldamento climatico a scala regionale e globale”, spiega Stefania Gilardoni, ricercatrice Cnr-Isp.

Per ovviare a tali difficoltà, lo studio ha fatto ricorso ad un metodo di machine learning, ossia una tecnica di intelligenza artificiale che ha contribuito ad analizzare le misure raccolte presso l’osservatorio atmosferico di Gruvebadet, nelle isole Svalbard, regione di Kongsjorden.

“Abbiamo misurato la concentrazione atmosferica di black carbon in modo continuativo, ovvero sia durante il giorno che la notte polare, a partire dal 2018, per oltre quattro anni, osservando che le concentrazioni di black carbon mostrano una forte variabilità stagionale, con valori maggiori tra dicembre e aprile. Abbiamo scoperto che questa variabilità dipende dalla frequenza e intensità delle piogge, che sono maggiori tra maggio e novembre, periodo in cui le concentrazioni di black carbon sono minori, dato che le piogge rimuovono efficacemente questo composto dall’atmosfera prima che questo possa raggiungere le regioni polari”, spiega Mauro Mazzola, ricercatore Cnr-Isp.

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Gli autori di questo studio hanno rilevato inoltre che la  variabilità delle concentrazioni di BC all’interno della stessa stagione dipende dalla temperatura e dai fenomeni meteo.

Nella stagione fredda (novembre–aprile) le concentrazioni maggiori di black carbon si osservano quando le temperature sono più basse e corrispondono al trasporto di masse d’aria fredda dal nord Europa e dalla Siberia. Mentre, durante la stagione calda (maggio–ottobre) le concentrazioni maggiori di black carbon si registrano in corrispondenza di venti che trasportano aria inquinata dalle regioni più calde alle medie latitudini”, chiarisce Gilardoni.

In conclusione, le concentrazioni di BC nell’Artico europeo sono modulate da un’efficace eliminazione dell’inquinamento durante il trasporto e da processi meteorologici su scala sinottica che promuovono un trasporto efficace da latitudini inferiori. Le variazioni in questi processi, accentuate dai cambiamenti climatici, impatteranno sul carico di inquinamento del futuro Artico e sulla variabilità temporale della concentrazione di BC.

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Gli autori dello studio evidenziano l’importanza di questo lavoro che “dimostra l’elevato valore scientifico dell’osservatorio atmosferico di Gruvebadet, dove la ricerca italiana è impegnata da più di dieci anni, perché rappresentativo dei processi atmosferici che avvengono in una scala spaziale cha va da centinaia a migliaia di chilometri. Inoltre, i risultati raccolti forniranno nuovi dati ai modelli climatici e di trasporto utili per capire come i cambiamenti dei fenomeni meteorologici e della circolazione atmosferica, innescati dai cambiamenti climatici, avranno un impatto sulla concentrazione di black carbon in Artico sul clima regionale e globale”.

Il cambiamento climatico in Artico

Con il climate change in atto l’Artico sta addirittura perdendo la sua memoria. Lo ha rivelato un altro studio condotto dal Cnr-Isp in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari Venezia e pubblicato sulla rivista The Cryosphere.

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I ghiacciai in arretramento in tutto il mondo ad una velocità senza precedenti, inclusi quelli dell’arcipelago delle Svalbard nel Circolo polare artico, si stanno privando infatti delle informazioni riguardanti la storia del clima e dell’ambiente che contengono al loro interno. “Dobbiamo pensare agli strati di ghiaccio come a pagine di un manoscritto antico che gli scienziati sono in grado di interpretare. Anche se le evidenze del riscaldamento atmosferico sono ancora conservate nel ghiaccio, il segnale climatico stagionale è andato perduto. I ghiacciai a queste quote – con l’attuale tasso di riscaldamento e l’aumento della fusione in estate – rischiano di perdere le informazioni climatiche registrate al loro interno, compromettendo la ricostruzione del cambiamento climatico affrontato dalla Terra nel corso del tempo”, spiega Andrea Spolaor, ricercatore del Cnr-Isp.

Nel frattempo in Artico la temperatura media annua cresce tre volte di più rispetto a quella del resto del globo. La diminuzione del ghiaccio marino, lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e gli incendi diffusi sono eventi estremi che si verificano con sempre maggiore frequenza ed intensità, mentre le ondate di freddo che si protraggono per più di 15 giorni sono quasi completamente scomparse dal 2000.

La rapida evoluzione della criosfera sta alterando gli ecosistemi in tutto l’Artico, modificando la produttività, la stagionalità, la distribuzione e le interazioni tra le specie negli ecosistemi terrestri, costieri e marini”, sottolinea l’Arctic monitoring and assessment programme (AMAP). Senza dimenticare che il cambiamento climatico sta avendo un forte impatto sulle comunità artiche, mettendo a rischio la loro sicurezza alimentare ed in generale in loro benessere.

La salvezza dell’Artico è pure la nostra.

[Credits foto: Vittorio Tulli, cnr.it]

Black carbon in Artico, le ultime scoperte ultima modifica: 2024-04-05T06:42:58+02:00 da Marco Grilli

Laureato in Lettere moderne, giornalista pubblicista e ricercatore in storia contemporanea, è consigliere dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea. Nei suoi studi si è occupato di Resistenza, stragi nazifasciste e fascismi locali, tra le sue pubblicazioni il volume “Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia”. Da sempre appassionato di tematiche ambientali, ha collaborato con varie testate online che trattano tali aspetti. Vegetariano, ama gli animali e la natura, si sposta rigorosamente in mountain bike, tra i suoi hobby la corsa (e lo sport in generale), il cinema, la lettura, andar per mostre e la musica rock.

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