Il profondo desiderio degli dei – Tradizione e modernità a Venezia79

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Il profondo desiderio degli dei – Tradizione e modernità a Venezia79 ultima modifica: 2022-09-07T20:17:25+02:00 da Emanuel Trotto
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Il profondo desiderio degli dei di Shôhei Imamura della sezione Venezia Classici a Venezia79 racconta il dissidio fra tradizione e modernità.

Tutto inizia sempre con il mito. Il racconto che l’umanità, da millenni, utilizza per giustificare se stessa nel bene e nel male. 

In un tempo lontano c’erano due divinità: Amaterasu, la Dea del Sole e suo fratello Susanō, il Dio della Tempesta. Sono entrambi figli e fratelli di Inazagi. Egli è la Divinità Creatrice, che fece sorgere dall’oceano le isole del Giappone come goccioline di fango rimaste sulla punta della sua lancia Ame-Nu-Hako. Questo racconta il mito sull’origine del mondo contenute nel Kojiki ossia le Memorie dei tempi antichi. Si tratta della più antica cronaca esistente del Giappone, del VIII secolo.

Il profondo desiderio degli dei di Shôhei Imamura
Il profondo desiderio degli dei di Shôhei Imamura poster

Sono tempi antichi si riflettono, tuttavia, nella modernità. Nel senso che possono essere riutilizzati e rielaborati allo scopo satirico. In questo campo uno degli autori più rappresentativi nel cinema giapponese è Imamura Shôhei. Nato nel 1926 da una famiglia altoborghese di Tokyo, si appassiona al cinema poco prima di conseguire una laurea in Storia Occidentale. Da allora inizia a fare la gavetta agli studi della Shochiku. Egli sarà assistente alla regia Yasujiro Ozu. Quest’ultimo è stato il cantore di una società che cerca di uscire dalle difficoltà del secondo Dopoguerra, attraverso una serie di delicati drammi familiari e affreschi quotidiani.

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A Imamura questo interesse per il sociale sarà presente nella sua poetica quando esordirà come regista nel 1954. Il cinema di Imamura è fatto da emarginati che perseguono i loro obiettivi in uno stato di caos sociale e morale. Le loro storie sono raccontate con uno stile poco lineare, con una regia che non intende sottintendere nulla. Nemmeno il paragonare i giapponesi a dei maiali per come non abbiano esitato a diventare fin troppo “accondiscendenti” nei confronti degli occupanti stranieri. Questo lo racconta in Porci, geishe e marinai del 1961.

Per Imamura la società fagocita l’individuo senza lasciargli scampo. Si tratta, in versione consumista, della selezione naturale. Sopravvive chi si sa adattare. L’analisi, grottesca e antropologica allo stesso tempo, gli ha procurato numerosi fastidi con la Nikkatsu.

Suo è anche uno sguardo, a suo modo, rivolto al mondo animale. Non è un caso che egli utilizzi un  montaggio nel quale il concetto viene espresso tramite la forma visiva. Imamura lo applica a situazioni o dialoghi tramite l’abbinamento con una figura animale. L’animale è inoltre presente in alcuni titoli dei suoi film: da Cronache entomologiche del Giappone (1963) a L’anguilla (1997). Nel mezzo c’è una grande impasse creativa da parte di Imamura. Per alcuni anni egli si è dedicato principalmente alla realizzazione di documentari. Soprattutto dopo il suo allontanamento definitivo dalla Nikkatsu dopo il flop de Il profondo desiderio degli dei (1968).

Il profondo desiderio degli dei di Shôhei Imamura

Il film, restaurato dalla Nikkatsu stessa, è stato presentato alla 79 Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Venezia Classici. Tale sezione della Mostra è tornata dopo che, per due anni a causa della pandemia, è stata ospitata a Bologna dal festival Il Cinema Ritrovato nell’agosto 2020 e nel centro storico di Venezia nel 2021.

Essa si propone, dal 2012, di presentare i migliori film classici restaurati nel corso dell’ultimo anno da parte delle cineteche, istituzioni culturali e produzioni di tutto il mondo. Quest’anno l’Oriente è presente con cinque titoli che spaziano dall’India (Shatranj Ke Khilari – I giocatori di scacchi, 1977 di Satayjit Ray) a Taiwan (A Confucian Confusion, 1994 di Edward Yang), al Giappone con, oltre a Imamura, anche Ozu (Kaze no naka no mendori – Una gallina al vento, 1948) e Seijun Suzuki (Koroshi no Rakuin – La farfalla sul mirino, 1967).

Il profondo desiderio degli dèi racconta lo scontro fra la modernità e la tradizione. Teatro della vicenda è un’isola nel profondo sud del Giappone. In essa vive una piccola comunità che ha convertito la tradizionale coltivazione del riso alla più produttiva canna da zucchero.

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Questo ha provocato la rovina della famiglia Futori. La loro situazione è peggiorata anche dalla relazione incestuosa che lega il figlio maggiore, Nekichi con la sorella Uma. Dal loro rapporto è nato Kametaro e sua sorella Toriko. Per espiare la sua colpa Nekichi è incatenato a una roccia che un tifone ha mosso fino a bloccare l’unica fonte di acqua dolce dell’isola. Egli la deve scavare. Così facendo la fonte può essere liberata e l’onore della famiglia recuperato. Nel frattempo giunge dalla Sede Centrale dello zuccherificio, un ingegnere da Tokyo per indagare sulla scarsa produttività dell’isola.

Il membro più “ferino” della famiglia Futori, Toriko.

Il racconto si divide costantemente. Da una parte la comunità cerca di avviare l’economia dell’isola verso un benessere sempre più agognato; dall’altra i Futori rifuggono al progresso orgogliosamente. Tranne Kametaro desideroso di abbandonare l’isola e raggiungere la capitale. Una divergenza che mostra tutte le sue crepe in quanto, nonostante tutto, la comunità è ancora legata a riti ancestrali e alla divinazione. Questi ultimi vengono strumentalizzati abbondantemente da tutti gli abitanti, attratti dalla prospettiva di un lavoro sicuro. Prospettiva ancora più allettante quando si decide di trasformare l’isola in un polo turistico.

L’identità giapponese è in crisi. Ciò avviene dopo quasi un secolo dal processo di modernizzazione, dell’epoca Meiji. Il Giappone del Dopoguerra è pesantemente occidentalizzato, non solo a livello tecnologico, ma anche a livello di costumi e gusti. Per raggiungere il benessere non si esita a sopprimere chi si mette contro. Questi ultimi non possono che essere schiacciati e assorbiti. Fondamentale in tal senso è il particolare della coda di una lucertola che si dimena ancora dopo essere stata tranciata da un cingolato.

Imamura si è sempre definito un contadino, e un ammiratore di una società primordiale rispetto a quella moderna. Per raccontare la fine di questo mondo, inevitabilmente corrotto, utilizza il mito. Nel senso che il racconto mitico della fondazione del Giappone si adatta a questo microcosmo. Amaterasu e Sunsanō diventano Nekichi e Uma, fratelli e amanti. Costoro sognano e cercano di raggiungere un isolotto vicino ancora incontaminato. Per poter ricominciare.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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