White Noise di Noah Baumbach, film tratto dal romanzo di DeLillo, apre la 79° Mostra del Cinema di Venezia, fra consumismo e disastri ecologici
L’americano ha paura. Tutta la storia degli Stati Uniti si basa su questo sentimento. Che porta, da una parte, alla corsa ossessiva per gli armamenti, dall’altra all’accumulazione per eccesso di qualsiasi cosa. Deve essere tutto più grande, più completo, tutto pronto ad ogni evenienza. Perché l’americano ha paura di ciò che non riesce a conoscere e capire. Si tratta di un sentimento universale, è ovvio. Ma in questo contesto geografico viene ancora di più amplificato.
Se da una parte c’è la paura, dall’altra c’è anche la contemplazione. Non si può fare a meno di ammirare il disastro naturale, specie se trasmesso in televisione. Perché è lontano e facilmente godibile come un qualsiasi altro spettacolo. Incuranti che può succedere sempre l’inevitabile anche in prossimità del vialetto di casa.
Questo sentimento racconta White Noise di Noah Baumbach, presentato in anteprima come film d’apertura della 79 Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia. Il film, tratto dal romanzo di Don DeLillo (dalle cui opere è stato tratto anche Cosmopolis di David Cronenberg), verrà poi rilasciato su Netflix il 30 novembre dopo essere passato, il 30 settembre, come titolo d’apertura del 60° New York Film Festival.
È la storia della famiglia Gladley. Il padre, Jack (Adam Driver) è professore emerito di studi hitleriani in un campus universitario del Midwest. Ci vive con la moglie Babette (Greta Gerwing) e con i figli avuti dai precedenti matrimoni di entrambi. La loro vita scorre in maniera monotona, ripetitiva, assurda. Una perfetta parodia dell’American Dream con tutte le sue gioie, contraddizioni e paure. Fino a quando, un incidente ferroviario, rilascia nell’aria una nube tossica che comporta l’evacuazione generale della loro comunità. Da qui, tutti i segnali di una vita apparentemente perfetta, iniziano a diventare terribili avvisaglie di paure più grandi.
Contagion – Il cinema fra pandemia e distopia
Il film riprende, con qualche lieve variazione, la trama dell’omonimo romanzo del 1985. Leggendolo o rileggendolo ora, alla luce degli eventi provocati dalla pandemia, risulta essere un testo di una notevole modernità: incredibilmente profetico, incredibilmente attuale. In quanto, come ha avuto modo di dire Baumbach alla conferenza stampa, «può essere attuale in qualsiasi contesto storico». Questo perché racconta la storia di una famiglia che deve affrontare un’emergenza ambientale (oggi sarebbe sanitaria) di carattere collettivo. Cercando, allo stesso tempo, di prendere più informazioni possibili in modo da normalizzare l’impatto che un evento potenzialmente catastrofico, può provocare nella quotidianità.
Anche il modo di reperire queste informazioni è rimasto invariato negli effetti. Se in passato ci si rivolgeva alla radio o alla televisione, oggi sono internet e i social: quello che non è cambiato è anche il grado di attendibilità degli stessi. Cercando di interpretare la parte per il tutto, si tende ad avere una opinione, si assume allo stato di “persona informata”, confutabilissima. A ciò si unisce anche l’incapacità di fronteggiare una situazione di pericolo in maniera efficace. In questo caso è una associazione di volontariato che si occupa di organizzare simulazioni di comportamento in situazioni estreme. Costoro si trovano nella posizione di dover gestire un’emergenza come una simulazione e non il contrario.
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L’ignoranza e l’intellettualismo spicciolo fanno il resto. La cospirazione è dietro l’angolo, e non agisce solo a livello pubblico ma anche a livello familiare. Come viene più volte ripetuto la famiglia è la culla della disinformazione. In casa Gladney tutti sanno qualcosa, tutti hanno un’opinione, ma è tutto enciclopedico, vuoto, contraddittorio, complottista come Heinrich, il figlio maggiore. O come la figlia maggiore, Denise. Che monitora sua madre, considerandola una sempliciotta che si nasconde dietro mucchi di apparenze. Babette è ossessionata da prodotti dimagranti, da gomme da masticare e dal volontariato con gli anziani. Per non parlare di un attaccamento ossessivo con il figlio più piccolo, Wilbur. È affetta, inoltre, da continui vuoti di memoria che la portano a fissare per lungo tempo la finestra e a ingerire pillole di un misterioso medicinale. Una serie di modi come altri per mantenersi vivi e attivi, per sfuggire alla morte.
Che cos’è la paura di morire se non la presa di consapevolezza, inevitabile, della nostra fragilità? Il sapere di perdere tutto quello che si ha e che si è ottenuto. La paura del nulla eterno in confronto al tutto effimero. Tutto diviene effimero. Cos’erano gli anni ’80 negli Stati Uniti se non effimeri? Gli anni del benessere economico promossi dal governo di Ronald Regan, promotore di un’opulenza dei costumi oltre ogni dire?
Il luogo di culto è il supermercato (o, nella sua versione testostiroidea, il centro commerciale) sia a livello pubblico che per gli intellettuali, soprattutto antropologi – come Marc Augé che ha coniato in questo contesto il concetto di “non luogo”. Oppure di semiologi che vedono il supermarket come una specie di limbo che porta, trascendendo, a una dimensione paradisiaca.
Un paradiso fatto di luce accecante che si riflette sulle porte a vetri scorrevoli, sulle migliaia e migliaia di prodotti tutti perfettamente impilati sugli scaffali: di tutte le tipologie anche se sono tutti, semplicemente, dei cartoni di latte, dei pacchi di biscotti, buste di patatine, ecc. Una grande varietà e, allo stesso tempo, un immenso spreco nel quale è facile immergersi e abusarne senza tener conto delle conseguenze che esse siano ecologiche, economiche o sociali. Tutto diviene, alla fine, un compost della pattumiera dai colori non più brillanti, ma sporchi e maleodoranti, eppure dei quali non riusciamo a farne a meno.
Jack, al culmine della disperazione, non esita a sfasciare i sacchi o a ribaltare i bidoni, riversando tutta la pattumiera sul pavimento. Infilare le mani nel pattume è l’essenza stessa di questo consumismo selvaggio. Si tratta di una ricerca della soluzione alla morte rovistando nell’effimero. Tutti siamo dei prodotti con una data di scadenza. Questo ci rende non dissimili da ciò che gettiamo via. A breve o a lungo termine noi siamo programmati per scadere. Possiamo allontanare da noi questa idea, focalizzarci su noi stessi, immergersi nella folla tutta allineata come prodotti sugli scaffali, conformarsi. Ma non ci possiamo fare niente: questa è la vita. O meglio, questa è la Natura.