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Serengeti non morirà – Le origini del cinema green a CinemAmbiente24

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Serengeti non morirà – Le origini del cinema green a CinemAmbiente24 ultima modifica: 2021-10-10T08:00:02+02:00 da Emanuel Trotto
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Serengeti non morirà film del 1959 di Bernhard Grzimek, presentato restaurato a CinemAmbiente24 è il precursore dell’attuale cinema ambientale

Serengeti nella lingua Masai significa «pianura sconfinata». Si tratta di un grande Parco Nazionale creato in Tanzania nel 1951. In anticipo sui tempi, Grzimek aveva già compreso l’importanza delle terre protette per il futuro dell’uomo.

Un po’ di autobiografia. Nella vecchia casa dei miei nonni c’era uno scaffale pieno di videocassette. Alcune erano di film di guerra, o d’azione, o documentari sulla pesca di mio nonno. Spiccavano fra tutte quelle con la custodia gialla di National Geographic. Da piccolo quelle videocassette erano il mio pane quotidiano nei pomeriggi dopo scuola (prima dei compiti) o nelle mattine d’estate. Mi appassionava vederle e rivederle più volte. Arrivando anche a riavvolgerne intere sequenze.

Scrivo di questo ricordo perché una di queste videocassette era dedicata al parco del Serengeti, la più famosa area protetta dell’Africa, dal 1981 Patrimonio dell’Umanità UNESCO. In esso c’era tutta una sezione dedicata alle esplorazioni di questa immensa savana. In una di queste si parlava (piuttosto diffusamente) del lavoro che compì Bernhard Grzimek (1909 – 1987). Egli era un veterinario, etologo e studioso tedesco che, per lunghi anni, si occupò della salvaguardia del parco. Oltre che essere stato un conduttore di successo (36 milioni di telespettatori a sera) di un noto programma sugli animali nella Germania Occidentale.

Il regista e documentarista Bernhard Grzimek assieme al galagone, inseparabile compagno di viaggio nella savana africana.

Nella videocassetta c’erano numerosi spezzoni e situazioni provenienti dal documentario diretto dallo stesso Grzimek, Serengeti non morirà (Serengeti darf nicht sterben, 1959), dedicato alla memoria del figlio Michael, deceduto prima della fine delle riprese. Il film si è aggiudicato nel 1960 il Premio Oscar come Miglior Documentario. La visione del documentario restaurato e presentato a Festival CinemAmbiente24 nella sezione Panorama, ha fatto riemergere le sensazioni dei pomeriggi in compagnia di quelle videocassette.

In particolare rimane impresso l’aereo con la quale Grzimek e suo figlio Michael hanno svolto le loro ricerche. Un aereo interamente dipinto a strisce come il manto di una zebra. L’altopiano nel film lo vediamo a volo d’uccello. I motori del velivolo rallentano fino alla velocità di 50 km/h, allo scopo di avvicinarsi il più possibile alle grandi mandrie senza spaventarle troppo. Un aereo che divenne anche un mito fra le popolazioni locali che lo ribattezzarono ndege cioè “ali”. Ad esso è collegato, però, anche il tragico incidente che ha tolto la vita a Michael.

Padre e figlio erano uniti in questo viaggio. Un viaggio che ci viene mostrato partire dalla lontana Francoforte, per poi scendere verso l’Egitto e da lì ripercorrere il percorso del Nilo. Fino a giungere in una immensa distesa fra il Lago Vittoria e il Kenya. Un territorio immenso che, sotto l’amministrazione coloniale tedesca, fu dichiarato nel 1929 una riserva di caccia. Una volta subentrati gli inglesi nella gestione si crea il Territorio del Tanganica e si istituisce il Parco Nazionale. Nel 1951 venne affidata la gestione del Serengeti a Grzimek.

La sfida (e storyline principale del film) è comprendere il percorso che le grandi mandrie di gnu e zebre compiono annualmente alla ricerca dei pascoli migliori. Ai tempi della realizzazione del film il Serengeti aveva una superficie di 12.000 km² oggi aumentata a 14.763 grazie anche alle ricerche di Grzimek.

La domanda sui terreni di pascolo nasceva anche da questa prospettiva: la popolazione dell’Africa si stava gradualmente liberando dal colonialismo, e stava crescendo. Di conseguenza anche le città e i centri abitati aumentavano. Per cui, se non si conoscevano con precisione i percorsi delle grandi mandrie, si rischiava di intrappolarle. Molti terreni di pascolo sarebbero stati distrutti a favore dei centri abitati. Contando che il Serengeti – come le riserve del Masai Mara a nord e dell’Altopiano di Ngorongoro a sud – non ha mai posseduto delle linee di demarcazione fisica. I confini visibili sono solo sulla mappa.

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Non è un caso che uno dei raccordi più frequenti all’interno del film siano le transizioni fra le mappe e i plastici che raffiguravano la piana e le riprese aeree. In cui si ha una vaga idea degli immensi spazi di erba fin dove l’occhio può vedere. E del numero immenso di animali che le popolava.

C’è da dire che Grzimek non aspirava alla carriera cinematografica. Non era sua intenzione. Il solo altro documentario che ha diretto nel 1956 è Non c’è più posto per le belve premiato alla Sesta Edizione del Festival del Cinema di Berlino. Di certo non rappresenta una filmografia. Tuttavia, assieme a Serengeti sono dei titoli, che hanno una importanza fondamentale. Per prima cosa, il fatto che entrambi abbiano conseguito dei prestigiosi premi cinematografici, è un segnale che un certo tipo di visione del mondo si stava pian piano affacciando.

In secondo luogo, perché Serengeti vive di momenti di autentico pathos che solo il cinema sa dare. All’inizio del film c’è un cartello ad avvertire lo spettatore che alcune situazioni sono state ricostruite successivamente, sebbene verificatesi realmente. In questo gruppo vi sono tutte quelle che riguardano Michael. Da quando, con l’aereo danneggiato da una buca, si mette in marcia in cerca di acqua, trovando un fortino tedesco abbandonato.

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Oppure, quando, dopo aver sedato e messo un segno di riconoscimento su una gazzella, si avvicina ad essa. Si accovaccia e la carezza. Si tratta di un momento veloce, ma che risulta uno dei più commoventi del film. In esso c’è tutto il messaggio di cura e salvaguardia dell’ambiente (al pari dei beni culturali) che portava avanti lui e suo padre. Perché solo avvicinandosi e toccando con mano è possibile capire per davvero. Grzimek non ha creato solo un cinema, ma ha diffuso una cultura.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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