Kufid – Il cinema come riqualificazione sociale al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina

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Kufid – Il cinema come riqualificazione sociale al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina ultima modifica: 2021-04-11T07:12:17+02:00 da Emanuel Trotto
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Parole antiche e parole nuove: Inch’Allah, Gentrificazione e Kufid. Da una parte un buon augurio, dall’altra una personificazione. Nel mezzo c’è la perdita. Su questi due binari si muove il film di Elia Moutamid Kufid.

Kufid è un film che è stato presentato di recente nella sezione Italiana.Doc del 38 Torino Film Festival e nella sezione Extr’a del recente FESCAAAL. In quest’ultima ha guadagnato la Menzione Speciale.

Kufid locandina

La prima parola è un buon augurio che si insegna ai bambini. Insch’Allah è un’espressione contenuta nel Corano e significa “Se Dio vuole” (“in-šā’a-llāh”). È l’espressione di buon augurio e la si deve pronunciare prima di iniziare a fare qualsiasi cosa. Questo include anche le riprese di un film. Moutamid a dicembre 2019 era in Marocco ad effettuare i sopralluoghi per il suo film sulla riqualificazione urbana. Ha commesso l’errore di non pronunciare quella parola. E infatti le cose non sono andate bene.

Si passa a marzo 2020. La Lombardia è messa in ginocchio dalla pandemia. L’Italia è chiusa in casa per difendersi. In televisione ci sono manifestazioni di solidarietà. Oppure si cerca di sdrammatizzare in maniera rispettosa la situazione. La reclusione forzata che costringe a rimettersi in gioco e a ricalibrare tutto. Complice la noia e l’impotenza. Anche il film ha premuto il tasto di pausa. Il materiale che era stato raccolto prima va riscritto. E poi è rimontato. Come appunto la realtà. C’è bisogno di un nuovo sguardo che vada al di là del proprio balcone. Così arriva Kufid.

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Il film è un dialogo continuo. Con degli interlocutori che non rispondono. Perché troppo lontani nel tempo e nello spazio, o che agiscono coi fatti. Questi comunicano, soprattutto, con le azioni che vengono compiute dalle persone colpite. E nelle reazioni delle stesse. E nelle reazioni del suo dialogatore stesso. Elia, il regista, parla a noi, in fuori campo. Ma parla anche a Kufid, un neologismo del regista che ha l’assonanza con il più temuto COVID. A questo confidente invisibile ed insidioso Moutamid, chiuso nella sua casa in provincia di Brescia, racconta la propria vita.

Elia Moutamid regista di Kufid
Il regista e narratore Elia Moutamid nel suo studio in una scena del film.

C’è il ricordo del padre che è arrivato in Italia quarant’anni prima dal Marocco per vendere tappeti. Che è riuscito a fare fortuna. E che, una volta in pensione, è ritornato nella natia Fez. Ricorda zio Gabriele, un contadino locale, che sembra uscito da un film di Ermanno Olmi. Il quale, in barba alle restrizioni religiose, gli faceva assaggiare il salame di nascosto. C’è il ricordo della madre. Lei veniva soprannominata “Maria di Nazareth” quando, da piccolo, andavano in vacanza al mare, per via del velo.

Una voce unica che rimbalza su immagini della sua Terra, quella in cui è nato e quella in cui è cresciuto. Fez e Brescia. La prima con le sue case tradizionali, che svende il suo centro medievale in nome della gentrificazione. Il lato oscuro della riqualificazione ambientale è la perdita del proprio io, di una cultura. La seconda con le sue strade deserte, piantonate dalle forze dell’ordine. Il virus striscia subdolo e il distanziamento sociale è il solo modo perché non bussi alla tua porta. Ma se, comunque, succede, che fare?

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Il terzo termine, quel che sta nel mezzo è, appunto, “Gentrificazione”. Nel mezzo, ma che nel corso del film ritorna e striscia come il virus. Un virus culturale e sociale. Perché causa un esodo dai centri storici alle periferie. Le periferie diventano così lo specchio della situazione umana. Case a poco prezzo, impilate come mattoncini dei lego. Il virus del conformismo. Ossia l’assunzione di una identità, cucirsi addosso una maschera e non sapersi più riconoscere allo specchio. Il vecchio, l’antico diventa un fenomeno da baraccone. I vecchi casolari lombardi per Moutamid sembrano dei vecchi clown: tristi, malinconici ed inquietanti. Ma non è una convenzione anche questa? Non è soltanto una mancata accettazione della individualità? La stessa individualità che dobbiamo coltivare dietro una mascherina quando usciamo di casa?

Kufid, una scena del film

Da qui la critica dell’autore alla società a cui egli stesso appartiene. Di fronte alle manifestazioni di odio a seguito della liberazione di Silvia Romano si chiede, legittimamente, se saremo realmente più forti dopo la pandemia. Più forti moralmente o nelle proprie convinzioni, giuste o sbagliate che siano? Oppure sono state messe in pausa tutte le problematiche. Come può essere, ad esempio, l’integrazione? L’accettazione avviene per davvero oppure è solo una maschera di ipocrisia che, come molte altre che teniamo addosso, è caduta?

Le città sono vuote, e i quartieri abbandonati. O che sono ancora da costruire, sono quello il riflesso di ciò che siamo? L’alienazione ci ha ridotti a degli spazi vuoti. Noi siamo quel degrado, mascherandolo con i buoni sentimenti? Oppure cresceremo come il mais che è stato seminato prima del lockwodn? Il cielo sopra le foglie dei filari è azzurro. Può essere un buon auspicio per un nuovo inizio.

«Certo, andrà tutto» chiude Moutamid. «Inch’Allah».

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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