Aceh, After e Machini – Umanità e industrializzazione al Festival Cinema Africano, Asia e America Latina

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Aceh, After e Machini – Umanità e industrializzazione al Festival Cinema Africano, Asia e America Latina ultima modifica: 2021-03-27T07:37:46+01:00 da Emanuel Trotto
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Al Festival FESCAAL30 di Milano i film Aceh, After e Machini raccontano le comunità segnate dall’industrializzazione

Il Festival Cinema Africano, Asia e America Latina di Milano (FESCAAAL) ha raggiunto la sua trentesima edizione. Un compleanno che, per necessità, si sta svolgendo interamente online dal 20 al 28 marzo 2021 in collaborazione con la piattaforma Mymovies. Si tratta di un Festival tutto da conoscere poiché sonda in profondità nel nostro contemporaneo, in particolare sul rapporto che si ha dell’altro. Uno sguardo su un mondo spesso considerato altro.

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Parliamo di un mondo che è profondamente lontano da come ce lo immaginiamo. O che pretendiamo di conoscere. Perché ne vediamo degli scampoli in televisione oppure perché lo “troviamo” sotto casa o a una porta di distanza. C’è uno sguardo sia interno che esterno a questo mondo. Quest’ultimo (facente parte della sezione Extr’a) è al di fuori di qualsiasi sguardo pietistico. Anzi è vero il contrario. È uno sguardo vivido e intenso. La riflessione sui rapporti umani influenzati dalle situazioni politiche ed economiche dei rispettivi Paesi  accomuna i lavori del Festival.

Machini

Machini di Frank Mukunday e Tétshim racconta di un Paese, la Repubblica Democratica del Congo, che è da sempre stato schiavo dell’industrializzazione. Nel suo sottosuolo, sono presenti numerose risorse minerarie: dal rame all’uranio. Non solo, ma anche litio e cobalto, dei quali il Paese è la maggiore riserva al mondo. Dei minerali fondamentali perché sono una delle basi per la produzione delle auto elettriche. Un’ipocrisia del mondo industrializzato che mostra un lato oscuro della medaglia. Il mondo è distrutto da una nube mefitica verde dalla quale si raccolgono i frammenti propulsori per proseguire il lavoro. Machini, cortometraggio in selezione nel Concorso Cortometraggi Africani, racconta questo. Tramite una vicenda in stop-motion realizzata con gessetti, materiali di recupero e sassolini.

Machini di Frank Mukunday e Tétshim

Aceh, After

Uno dei mediometraggi più interessanti fa parte della sezione Fuori Concorso, Aceh, After, realizzato dall’antropologa Silvia Vignato. È ambientato in Indonesia, nella città di Lhokseumawe, la principale città del distretto di Aceh (isola di Sumatra). Un distretto colpito duramente dallo Tsunami del 2018, nel quale vive una popolazione fiera ed indipendentista nei confronti del governo centrale. Anch’esso un territorio ricco di risorse naturali quali il petrolio e gas naturale. Il racconto parte proprio dalla chiusura degli impianti di gas naturale presenti nella città. Le ciminiere degli stabilimenti sono imponenti e, anche da spente, dominano il paesaggio da qualunque prospettiva.

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«Quando si è detto che si sarebbe istituita una ‘Zona Economica Speciale», racconta la regista, «una di quelle enclaves di sviluppo dove si garantiscono alle imprese delle tasse inesistenti e il controllo economico liberalizzato, mi sono chiesta cosa volesse dire per quelle persone per quel territorio lo spegnimento delle raffinerie. Così mi sono trovata a girare questo film che è stato, di per sé, una ricerca che mi ha portato a scoprire anche la dimensione invisibile che si può filmare della storia recente».

Nel territorio Aceh il regime di Suharto (1921-2008) ha espropriato terre e campi e ha escluso i locali dal lavoro negli impianti estrattivi. Questo a favore delle aziende americane EXXON Mobil Oil e PT Harum. Gli stabilimenti sono stati smantellati nel 2018 quando il metano si è esaurito. Le strutture, tuttavia, sono ancora piantonate dall’esercito che impedisce di avvicinarsi e quindi anche di fare riprese all’interno del perimetro delle industrie. Fra i terreni che la popolazione non può avvicinare per questo motivo ci sono anche i cimiteri. Infatti il reportage vero e proprio si apre su queste immagini. Ovvero su persone che cercano di rimuovere rampicanti dai sepolcri e che raccontano di essersi rivolti allo sciamano per poter mantenere il contatto con i loro cari.

Fitri (a destra), Lela (al centro) e la madre di Lela (a sinistra), protagoniste del mediometraggio Aceh, after di Silvia Vignato

Il mediometraggio è diviso in tre capitoli che raccontano passato, presente e futuro della comunità. I personaggi che prendono voce sono i due lati opposti della situazione che gli stabilimenti hanno creato. Da una parte Fitri e Lela, due giovani madri (rispettivamente di 36 e di 23 anni) e delle loro famiglie e con esse vivono in case multifamiliari. In comune hanno dei parenti che, per necessità, si sono invischiati nello spaccio di droga. Oltre al fatto che altrettanti parenti erano parte del GAM, ossia del movimento di liberazione dell’etnia Aceh. Essi, fra il 1999 e il 2005 hanno subito una vera e propria persecuzione da parte del governo Indonesiano. Una situazione difficile in cui i militari non esitavano neppure a malmenare i bambini se legati ai ribelli.

Il marito di Fatma è un laureato che non riesce a trovare lavoro; il fratello di Lela, una volta uscito di prigione è in cerca di riabilitazione. Ma i test delle urine sarebbero un problema per le droghe. Quindi a mantenere le rispettive famiglie sono le donne attraverso lavori stagionali. Per Fitri la produzione a cottimo di mattoni e per Lela e sua madre nell’essicazione e vendita del pesce. Lavori con guadagni irrisori.

Dall’altra parte c’è invece chi è riuscito a sfruttare a proprio vantaggio la chiusura degli impianti. Un vantaggio dovuto alla Zona Economica Speciale. Essa viene istituita nel 2019 dal presidente Jokowi. Si tratta di una capitalizzazione di investimenti stranieri per lo smistamento del gas indonesiano in tutte le case del Paese. Una buona premessa ma che nasconde insidie. Infatti il lavoro promesso è raccomandato e sono veramente pochi quelli che riescono a usufruirne positivamente. Come Pakls, un dottorando e consulente della Zona che racconta il suo punto di vista da una casa, a differenza di Fitri e Lela, monofamiliare. Ancora una volta il messaggio che passa è quello che, perché tutto cambi, tutto deve restare uguale.

Maggiori info sul sito del festival.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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