Come può una donna dei nostri giorni riappropriarsi di un rapporto saldo con la terra? La domanda è al centro di 1ha43a, documentario di Monika Pirch
“La terra non può scomparire” sosteneva la bisnonna della protagonista mentre, a fianco del marito, investiva in terreno il denaro guadagnato poco a poco e faticosamente con il sudore della fronte. 1 ettaro 43 acri: a tanto ammonta la superficie di un appezzamento che, a distanza di generazioni, Monika si trova improvvisamente a possedere. Ed ecco, a questo punto, che nascono i quesiti: come può una donna dei nostri giorni riappropriarsi di un rapporto vero e saldo con la terra? Com’è cambiato il valore di un terreno agricolo nel corso dei secoli e qual è il modo migliore per farlo fruttare in modo consapevole e sostenibile?
La risposta a questi interrogativi è 1ha43a, documentario della tedesca Monika Pirch che, con i suoi Sei tentativi di riavvicinarsi alla terra, si è aggiudicato il premio speciale “IYS 2015” come Miglior Film dedicato al tema del Suolo all’Innsbruck Nature Film Festival 2015, membro della rete Green Film Network.
Foto Innsbruck Nature Film Festival
A partire dall’urgenza di sapere e di comprendere, la protagonista prova innanzitutto a stabilire una connessione fisica con la terra: la osserva, la tocca con le mani, si sdraia nel campo ereditato mentre, parallelamente, interroga esperti, consulenti dell’amministrazione locale, vicini e agricoltori.
“Non sapevo nulla del valore reale della terra e tantomeno di come coltivarla. E, come me, il resto- o perlomeno gran parte- della popolazione in Germania. Ecco perché ho pensato che raccontare questa storia fosse necessario” ci ha rivelato la regista, con cui abbiamo parlato del film. Il suo è stato un approccio a 360°, che ha coinvolto in un’analisi approfondita tutte le risorse a disposizione: le potenzialità dell’appezzamento per un’eventuale vendita o rendita del bene immobile, le caratteristiche del suolo che lo ricopre, il vento che vi soffia e che può generare energia, la produzione di patate.

“Il film parla di “connessione”. Mi auguro che il pubblico impari a conoscere e ad amare il mio campo, anche se in fondo non ci sono informazioni specifiche in proposito: la mia potrebbe essere la terra di qualunque agricoltore”.
Nel corso di un anno di tentativi più o meno fallimentari, che si sviluppano a cavallo tra immagini del passato dei suoi avi e le sfide presenti e future, Monika si rende conto di una grande verità: ai nostri giorni, il 2% della popolazione ha l’onere e la responsabilità di nutrire il restante 98%. “Durante le mie ricerche, sono rimasta affascinata dal materiale storico rinvenuto e dai metodi tradizionali di coltivazione di cui sono venuta a conoscenza. Ovviamente il passato non porterebbe necessariamente a pratiche agricole più sostenibili oggi – ma guardare indietro può chiarire in che modo è stata persa la connessione con quel che ci nutre ogni giorno. Solo poche persone lavorano effettivamente la terra e coltivano cibo, mentre in molti hanno perso contatto con questa dimensione e, di conseguenza, con il proprio senso di responsabilità.”

Il tema del suolo è dunque intimamente relazionato a questioni fondamentali come la sostenibilità (la terra fertile è una risorsa non rinnovabile che, se sfruttata, aggredita o fertilizzata in modo eccessivo o sbagliato, scompare per sempre) e una sovranità alimentare messa a rischio da pratiche inique e disumane come il land grabbing.
“La mia speranza è che, dopo il film, gli spettatori adottino uno sguardo differente, più consapevole e compassionevole, e abbiano più opzioni a disposizione per stabilire un contatto con il valore della terra” conclude la regista. “Il film è un reportage che mira ad affrontare il tema da diverse prospettive, così da creare un quadro più ampio, interessante e coinvolgente”.
Il risultato è un punto di vista personale, fresco, poetico e a tratti umoristico, su quel che 1 ettaro e 43 acri di terra possono offrire a occhi attenti e braccia operose.
