Dune: parte due – Il ritorno su Arrakis, fra ecologia e Antropocene

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Dune: parte due – Il ritorno su Arrakis, fra ecologia e Antropocene ultima modifica: 2024-03-17T00:25:41+01:00 da Emanuel Trotto
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Dune – Parte Due il nuovo kolossal fantascientifico di Denis Villeneuve ci riporta su di un pianeta sfruttato e in cerca di riscatto.

Le dune del deserto battute dal vento. Si sollevano nugoli di sabbia. Alcuni granelli compaiono davanti ai nostri occhi più scuri e, allo stesso tempo, più brillanti di altri. C’è qualcosa nell’aria: la Spezia è nell’aria. L’alimento altrimenti chiamato Melange, la sola fonte di energia presente nel cosmo creato dallo scrittore Frank Herbert nel fantascientifico Ciclo di Dune (1965 – 1985). Un alimento la cui la cui assunzione permette di avere doti di chiaroveggenza e di ebbrezza. Esso dona la possibilità di vedere gli eventi del futuro, acquisire le memorie di un passato remoto e, allo stesso tempo, vivere un presente incerto.

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La prima inquadratura di Dune (2021) di Denis Villeneuve, ci ha fatto entrare a gamba tesa nel mondo evocato dal romanzo omonimo di Herbert (1965). Quella polvere di Spezia ci è entrata negli occhi e l’abbiamo (metaforicamente) assimilata. E abbiamo avuto una prima visione di un futuro remoto (oltre ottomila anni dal presente attuale) in cui l’umanità si è trasformata e si è allontanata da se stessa. Possiede una tecnologia all’avanguardia, ma non ci sono le intelligenze artificiali di cui si parla tanto oggi. Perché, nel loro passato ma nel nostro futuro, esse hanno assoggettato per un tempo immemore l’umanità. La libertà è stata conquistata tramite una vera e propria guerra.

Dune - Parte due di Denis Villeneuve il poster
Dune – Parte Due di Denis Villeneuve, il poster.

Un conflitto nato dell’apertura di una mente, rimasta per troppo tempo impigrita e in catene. Una mente che è tornata libera ed è addestrata a superare l’ignoto dello spazio e del tempo. Dando la possibilità, resa fondamentale dalla Spezia, di attraversare i confini più estremi dell’Universo. Si arriva tanto lontano da dimenticare (a esclusione dei più saggi) da dove si è venuti, la Terra. Ciò non impedisce la replica pedissequa di strutture feudali, errori storici, avidità capitalistica per quella sabbia oramai divenuta indispensabile. Si è totalmente dipendenti dall’apertura delle porte della percezione, parafrasando Aldous Huxley (1894 – 1963).

Per oltrepassare i limiti si è disposti a muovere grandi fregate oltre le stelle; migliaia di uomini messi a disposizione da un potere più grande. Costui è una pedina. Gli altri sono disposti a tutto pur di mantenere lo status quo, anche a insabbiare tutto, letteralmente.

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In potere, quello dell’Imperatore Shaddam IV, nel primo film, era invisibile all’occhio ma presente nelle azioni e nell’aria. Un potere che compare quasi subito al principio di Dune – Parte Due  (sempre diretto da Villeneuve) uscito in sala il 28 febbraio. Un uomo segnato dal tempo, dal volto scavato e lo sguardo ceruleo di Christopher Walken. Un uomo anziano impegnato in una partita a scacchi in un giardino rigoglioso assieme a sua figlia, la Principessa Irulan (Florence Pugh).

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Attraverso Irulan, con la sua voce, ritorniamo su Arrakis, il pianeta dove si produce la Spezia, il mondo al centro di questi conflitti. Ritorniamo anni dopo averlo (cinematograficamente) abbandonato. La Principessa si pone domande sulla legittimità di quel gioco politico/economico e mistico che ha portato alla caduta della casa Atreides. Quale necessità ha avuto come risoluzione la morte dei custodi della Spezia e l’annientamento delle loro armate? Una distruzione che lo stesso Imperatore, suo padre, ha approvato.

La riflessione di Irulan è registrata su nastro. Delle riflessioni che riprendono le sue introduzioni, a numerosi capitoli del romanzo. Visivamente vediamo Arrakis dall’esterno, dallo spazio. L’emisfero meridionale del pianeta, lontano e astratto. È un oggetto da studiare o da combattere. Nelle sale di controllo si vede solo l’emisfero settentrionale.

Dune i protagonisti
I protagonisti Paul Atreides (Timothée Chalamet, a destra) e Chani (Zendaya) in una scena del film.

La visione d’insieme, è preclusa a chi non è disposto a vedere. Arrakis è un luogo arcaico in cui convivono le antiche tradizioni. Un luogo che gli stessi Paul Atreides (Timothée Chalamet) e sua madre Jessica (Rebecca Ferguson) devono imparare a comprendere. Sopravvissuti, trovati e accolti dagli indigeni locali, i Fremen, devono superare delle prove. Lui deve inoltrarsi nel deserto, lei deve bere l’”Acqua del verme”. Lei è designata come la nuova guida spirituale della comunità, lui potrebbe essere il tanto atteso Messia, Lisan-Al Gaib, la «voce da un altro mondo» profetizzato dai mistici.

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Inoltrandosi nel deserto Paul scopre grazie alla coetanea Chani (Zendaya) che, quanto aveva imparato al riguardo, è raffazzonato. Il viaggio serve per affrontare le sue paure più grandi. Quelle legate a un futuro, suggerito dalla Spezia, nebuloso e violento da una parte. Ma, dall’altra, vede la sabbia trasformarsi in acqua, il deserto diventare spiaggia.

Dune la bocca di un verme della sabbia
La minacciosa bocca di un verme della sabbia, in una scena del film.

Il paesaggio, come in tutto il cinema di Villeneuve, diventa una pagina su cui scrivere le storie che si vogliono raccontare. O meglio, si vanno a ridefinire storie che sembrano già abbondantemente redatte, senza alcuna necessità apparente di rimaneggiarle. Il paesaggio diventa un vero e proprio confine, come lo era stato in Sicario (2015), in Arrival (2016) e Blade Runner 2049 (2017). È passare da un mondo controllato a le infinite variazioni che possono modificare il passato, il presente e il futuro.

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Questo è, metaforicamente, Arrakis, la summa di questo confine sociale, di questa ricerca. Sotto la superficie di quella “semisfera” arancione ci sono delle sabbie in cui è nascosta la ricchezza dell’universo. Ma c’è anche un popolo che non è disposto a farsi sfruttare e schiacciare. Sotto la superficie vi sono infine i mostri, come Shai-hulhud, i grandi vermi delle sabbie. Loro malgrado sono indispensabili per la produzione del Melange. Quando emergono, però, lo fanno per ristabilire l’ordine. I grandi vermi sono la risposta, imponente e incontrollata di un universo che ha portato l’Antropocene alle sue estreme e disastrose conseguenze. E ha bisogno di un nuovo inizio per ridefinire il futuro.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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