La zona d’interesse è un film che narra l’Olocausto dal giardino del comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Un ambiente paradisiaco che ignora l’orrore.
Una famiglia in riva al fiume. Si percepisce solo il rumore dell’acqua, il fruscio delle foglie mosse dal vento, il vociare dei bambini e le voci degli adulti in sottofondo. Si separano: alcuni vanno a fare il bagno, altri vanno a raccogliere frutti di bosco nei vicini cespugli. Sembra tutto normale. Ma non lo è. Lo sarebbe se non fosse per i lunghi istanti che precedono questa scena. Lo schermo nero dopo i crediti iniziali e il titolo del film. Un buco che rimane troppo a lungo per essere considerato una semplice casualità: cinque minuti non lo sono per niente. Sentiamo, mentre il nostro occhio si abitua lentamente alla non presenza dell’immagine, una musica che può essere considerata un flusso di bassi. Sufficienti a far vibrare lo stomaco dello spettatore. Una sensazione che si porterà avanti per tutto il resto della visione.
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Questo è l’inizio di La zona d’interesse (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer (Under the Skin, 2013). Il film, ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, ha vinto il Gran Premio della Giuria al 76° Festival di Cannes. Distribuito in sala con I Wonder Pictures a partire dal 22 febbraio, concorre agli Oscar 2024 con cinque nomination fra cui quella per Miglior Film.
Torniamo al nero. Al principio prima della luce. Ecco che quella scena apparentemente idilliaca della famigliola che fa una gita fuori porta assume un significato tutto nuovo. Una sensazione sgradevole che lo spettatore poteva già intuire dalla locandina, in cui si contrappone il verde di un giardino e il bianco degli abiti dei personaggi. Sopra di essi un cielo nero occupa quasi tutta la superficie. Il nero che rappresenta il nulla, ma non solo. Rappresenta il non guardabile, quello che non ci viene concesso. Spostare lo sguardo un po’ più in là, al di là di un muro. Uno sguardo negato dalle riprese stesse, effettuate piazzando delle macchine da presa operate da remoto in tutto lo spazio filmico. Mentre erano ripresi da più di dieci angolazioni in contemporanea, gli attori potevano muoversi liberamente per le scenografie.
La zona d’interesse è una celebrazione dell’irrilevanza. Il sentimento che prende allo stomaco è quello di irritazione e rabbia. Perché siamo, intrinsecamente, degli aguzzini. Perché stiamo parlando di un nazista e della sua famiglia. Ma non uno qualsiasi, bensì di Rudolf Höss (1901 – 1947), colui che ha costruito e diretto per primo il campo di concentramento di Auschwitz. L’uomo a capo di ciò che considerato il simbolo Olocausto. Höss è metodico, di una precisione assoluta nello svolgere le sue mansioni – decidere della morte di migliaia di persone che chiama “prodotti”. È spietato e freddo. Tanto quanto è il mite marito di Hedwig, e un padre attento e amato dai suoi figli. In un privato che è costituito da una villetta con tanto di giardino e piscina. Un ambiente con tutte le comodità inclusa la possibilità di fare gite nel vicino fiume. Proprio come quella che apre il film.
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Siamo così assuefatti dalle immagini dell’orrore che troviamo insopportabile vedere tanta, insensata, serenità mentre a pochi metri si sta consumando una tragedia. La sentiamo, dalle grida, dai rumori, dagli spari. Troviamo insopportabili le problematiche quotidiane di queste famiglia. Come i capricci di un bambino o la presenza di una macchia d’acqua sul parquet che provoca una sfuriata della padrona di casa alla servitù. Troviamo insopportabile l’incredibile leggerezza con cui viene raccontato un trasferimento per via di una “promozione”. In un’altra situazione poteva essere uno spunto drammaturgico cardine, qua risulta emotivamente irrilevante.
L’idea di privato paradisiaco e lontano anni luce dal reale viene sottolineato più volte. Soprattutto da parte di Hedwig che arriva a dire queste parole: «È la nostra casa. Facciamo la vita che abbiamo sempre sognato da quando avevamo diciassette anni. Meglio di quanto sognavamo. Finalmente fuori città. Tutto ciò che vogliamo, tutto alla nostra portata. […] Eccoci qua. Questo è il tuo spazio vitale». Lei rappresenta la completa miopia, o più semplicemente il disinteresse, che permea tutto il film.
Lei è la padrona assoluta della villetta. Il suo orgoglio vero è dato dal giardino, in cui ha fatto piantare i più svariati tipi di fiori. Lo rimira, lo attraversa costantemente, lo fa curare dai prigionieri del campo. Pensa di far crescere la vite per poter aver un gazebo ben ombreggiato e ricoprire il muro di cemento confinante. Alle piante vengono riservati gli unici piani ravvicinati della pellicola, altrimenti larghi e freddi. Proprio avvicinandosi a uno di questi fiori che l’inquadratura si tinge di rosso.
I colori ancora una volta: al grigio del cielo, ai colori terrosi degli edifici di Auschwitz si contrappongono il verde brillante del prato. Lo stesso su cui le figlie dell’aguzzino camminano impacciate per andare verso la piscina. Dove un tuffo in acqua serve ad attutire il rumore della morte. Ancora meglio se l’acqua è quella del fiume, circondato da un bosco verdeggiante e sereno. L’acqua e la terra (con i suoi frutti) sono contrapposte al fuoco dei forni crematori e all’aria che ne sparge fumi e ceneri lontano dagli occhi.
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La zona d’interesse ci dice che siamo tutti complici. Finché chiudiamo occhi e orecchie, il Male non ci interessa più di tanto. Purché la nostra vita, il nostro equilibrio, non venga minimamente intaccato o minacciato. La minaccia è quella di un orrore che deve danneggiare le nostre coscienze, smuoverle perché si raggiunga la consapevolezza. Lo spettatore è semplicemente impotente di fronte a quello che sta vedendo. Viene recluso al buio, ma poi viene invaso da una luce naturale e candida, ma non innocente.