White Plastic Sky – Al TFF41 il film animato che fa riflettere sul futuro

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White Plastic Sky – Al TFF41 il film animato che fa riflettere sul futuro ultima modifica: 2023-12-01T17:12:37+01:00 da Emanuel Trotto
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White Plastic Sky, film d’animazione presentato in Concorso al 41 TFF che unendo il mito classico alla distopia fa riflettere sul futuro.

Il termine panismo deriva dal dio Pan, la divinità dei boschi, a cui termine greco παν, si riferisce. Esso sta ad indicare il “Tutto” nella tendenza di confondersi e mescolarsi con esso, e con l’assoluto più in generale. La donna amata, Ermione, in D’Annunzio, si trasforma ne La Pioggia nel Pineto, ripercorrendo il suo corpo e i suoi sentimenti. Si tratta di una fusione completa con la Natura. È una percezione molto profonda del mondo esterno, in cui l’uomo può rifugiarsi tramite l’immersione, mettendo l’io in secondo piano. La metamorfosi dell’uomo in pianta è una costante sia nella letteratura che nell’arte, divenendo una metafora anche di una fuga impossibile.

È un legame indissolubile con ciò che si ha attorno nella sua forma più completa. Il ritorno alla Natura in questa forma può essere anche una punizione dell’egoismo umano: nella Commedia dantesca al XIII canto dell’ Inferno Dante e Virgilio si addentrano in una foresta di piante rinsecchite nelle quali le anime dei suicidi.

White Plastic Sky di Sarolta Szabó
White Plastic Sky di Sarolta Szabó, Tibor Bánóczki: il poster.

Andando più indietro, nel mito di Apollo e Dafne raccontato da Ovidio nelle sue Metamorfosi la trasformazione di Dafne è, indirettamente, una conseguenza della vanità di Apollo. Eros lo punisce infatti con un amore folle per lei. Impossibilitata a fuggire la fanciulla chiede aiuto al padre Peneo si trasforma in un alloro. Il petto si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano e diventano fronde, le braccia si trasformano in rami, i piedi si inchiodano in radici e il volto svanisce in una chioma.

Quindi una trasformazione simile può essere considerata anche una specie di contrappasso? Oppure può essere un giusto pegno da pagare alla Natura per poter continuare a vivere? Soprattutto se l’oggetto della trasformazione, l’uomo, è l’essere che più di ogni altro ha modificato radicalmente il mondo. Una trasformazione divenuta così profonda da arrivare al limite della distruzione. Questo è l’assunto del film d’animazione White Plastic Sky degli ungheresi Tibor Bánóczki e Sarolta Szabó,  presentato nel Concorso Lungometraggi al 41 Torino Film Festival. Prima della rassegna torinese il film è stato presentato anche al 73° Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

White Plastic Sky protagonisti
I protagonisti di White Plastic Sky, Nora e Peter (Zsófia Szamosi e Támas Keresztes) in una scena del film.

White Plastic Sky è ambientato di un mondo del 2123: un futuro in cui tutte le specie animali e le piante si sono completamente estinte. Gli ultimi scampoli di umanità sono costretti a vivere in città ricoperte da una colossale cupola trasparente. Questo per evitare le avversità di un mondo desertico ed inospitale al suo esterno. Nello specifico siamo a Budapest. Uno scienziato è riuscito a ricreare gli alberi per permettere agli esseri umani di respirare aria buona e nutrirsi, salvando l’umanità dalla completa estinzione.

Questi alberi sono ricavati dai corpi delle persone. Raggiunti i 50 anni, vengono inseminate e condotte in speciali strutture, dette Piantagioni. Qui, vengono sedate e fissate a delle particolari apparecchiature. Da qui si avvia un processo di metamorfosi, nel quale il seme impiantato nel loro torace, inizia a germogliare e a crescere.

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A questo processo ci si può sottoporre anche in maniera volontaria. Come succede a Nora, moglie di Peter, uno psichiatra specializzato nell’aiutare i parenti di quelli che vengono definiti Ibridi, a razionalizzare il dolore. Peter e Nora hanno perso il loro figlio. Peter è riuscito a razionalizzare il dolore. Per Nora questo risulta insostenibile. Le sue giornate si ripetono uguali a loro stesse. Tramite il suo sacrificio Nora è convinta di poter dare un senso alla sua esistenza, impiantando dentro di sé un nuovo essere vivente che, come un figlio, crescerà e, nel corso del tempo, lo rimpiazzerà. Tenendo questo nuovo corpo dentro di sé ritornerà a sentirsi madre.

Per Peter questo è un duro colpo. Decide quindi di salvarla, rimuovendo chirurgicamente il seme. Per farlo devono affrontare il mondo desertico che l’uomo si è lasciato alle spalle. Un mondo dove tutto è in rovina. Sopravvivono ancora ruderi di tentativi di risolvere una situazione arrivata al collasso: case abbandonate, distributori per macchine elettriche oramai ricoperti di sabbia. Attraversando questo mondo i due avranno anche modo di rivedere il loro rapporto, affrontare il loro dolore. Riscopriranno il piacere di sentire la pioggia sulla propria pelle, vedere nascere finalmente il sole e le stelle, sentendosi finalmente liberi dalla gabbia onnipresente rappresentata dalla cupola. Essa ha da sempre sezionato e coperto il cielo, impedendo di vederlo nella sua interezza.

White Plastic Sky
La distopica cupola che ricopre la città di Budapest in una scena del film.

Il mito classico – la storia rimanda anche a Orfeo ed Euridice – si mescola con il cinema di fantascienza distopica (2022 i sopravvissuti, 1973 di Richard Fleischer). Si mostra un mondo apparentemente equilibrato ma ancora allo sbando, in cui si vive del ricordo di ciò che non c’è più. I soli alberi in città sono degli ologrammi, le persone rivivono delle crociere virtuali su barche tirate a secco e gli unici animali presenti vivono nei giocattoli dei bambini e nelle statue dei monumenti. Unendo animazione digitale per gli ambienti e gli attori ripresi tramite la tecnica del rotoscope, l’atmosfera di White Plastic Sky viene resa ancora più realisticamente angosciante.

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Peter e Nora fuggono da tutto questo, in cerca di speranza. Vedono nuovamente l’acqua scorrere e che, un po’ per volta, sta formando tanti laghi. Il segno che la vita ritorna al suo grado zero, come la Terra ai suoi primi momenti. L’acqua inizia a manifestarsi come un brodo primordiale, liquido amniotico nella quale è possibile ripartire, soprattutto ora che l’uomo si è rinchiuso là dove non può nuocere.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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