Presentato a Venezia80, arriva in sala Dogman di Luc Besson. Una favola nera dove la redenzione passa attraverso l’amore per i cani
«È solo il tuo nome che m’è nemico, e tu sei te stesso anche senza chiamarti Montecchi. Cos’è Montecchi? Non è una mano, un piede, un braccio, un volto, o qualunque parte di un uomo. Prendi un altro nome! Cos’è un nome? Ciò che chiamiamo rosa, con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo, così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella cara perfezione che possiede anche senza quel nome.» William Shakespeare con questo monologo nel secondo atto di Romeo e Giulietta riesce a racchiudere la forza di un amore che va al di là di qualsiasi cosa. Un amore puro, il primo e forse anche l’ultimo grande. Quello della gioventù, libero da qualsiasi imposizione e da qualsiasi ipocrisia che le convenzioni sociali irrimediabilmente inquinano.
Si tratta di un rifugio sicuro e blindato nel quale niente e nessuno può entrare, dove si celebra solo ed esclusivamente la vita senza alcun vizio e ipocrisia. Qualcosa che resta per sempre. Un’esistenza con un prima e con un durante. Il quale non può che essere eterno ed etereo. Questo amore è il cuore pulsante di Dogman, il nuovo film di Luc Besson, presentato in Concorso alla 80° Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia e in sala dal 12 ottobre grazie a Lucky Red.
Il film nasce dalla cinofilia del regista di Nikita (1990) e Léon (1994). Besson ha trovato inoltre il suo protagonista in Caleb Landry Jones, un altro grande amante dei cani. Oltre che uno degli attori emergenti più interessanti degli ultimi anni (Scappa – Get Out, 2017 di Jordan Peele; Nitram 2021 di Justin Kurzel). Regista e interprete hanno creato un’intesa che ha permesso di plasmare il personaggio di Douglas, detto Doug, in maniera efficace ed empatica.
Doug è un essere innamorato della vita e, soprattutto dei cani. Per lui essi rappresentano la purezza in quanto possiedono tutte le virtù degli esseri umani, dall’empatia alla forza, senza averne tuttavia i difetti. Eccetto uno solo: quello di fidarsi dell’uomo. Questi, a volte ipocritamente, li definisce i suoi migliori amici. E ne approfitta per tradirli. Doug lo capisce fin da ragazzo, crescendo un sobborgo degradato del New Jersey, in una famiglia in cui l’unico amore accettato è quello nei confronti di Dio e dove vige la legge del più forte.
La sua casa è dominata da un fratello maggiore bifolco fanatico religioso e un padre che odia la vita e il suo unico scopo è quella di distruggerla. Si tratta di uomo crudele nei confronti di chi, invece, la vita la ama. Lo fa riducendo alla fame dei cani rinchiusi in una gabbia cenciosa perché possano essere sufficientemente aggressivi per i combattimenti clandestini. È crudele nei confronti di Doug che ritiene un debole e nei confronti della madre del ragazzo, che picchia regolarmente alla minima provocazione.
È in primis da sua madre che Doug impara la bellezza della vita, attraverso giornate in casa da soli a cucinare e ad ascoltare vecchie canzoni, da Edith Piaf a Marlene Dietrich. Voci che raccontano storie di autodeterminazione e di mancanza di rimorso per le scelte fatte, giuste o sbagliate che siano. Una parentesi idilliaca all’interno dell’inferno familiare in cui il mondo esterno è solo uno spiraglio visibile attraverso riviste patinate e impilate senza un particolare motivo in un capanno. Ma la vera salvezza sono i cani, nella cui gabbia viene gettato Doug dal padre in un raptus di rabbia incontrollata.
Per il giovane Doug è una resurrezione cristologica. Quelle creature tenute segregate e reiette divengono la sua salvezza: lui diventa come loro in un certo senso. Un cane in un mondo di umani, il portatore di una purezza che passa anche nella ricerca di una identità che per lui è solo fittizia. Con il tempo e la dedizione di una giovane insegnante, imparerà ad amare il teatro e per affrontare l’ipocrisia nella quale viviamo. Ma è veramente così? Se il mondo che noi consideriamo reale fosse solo una montatura, una squallida impalcatura per permetterci di vivere serenamente, chiudendo gli occhi e le orecchie? Man mano che passa il tempo per Doug il riflesso del mondo è il Reale. Quello che per tutte le persone che incontra – l’interesse per i cani – viene visto come una passione, per lui è l’essenza stessa.
Perché lui non si limita solo ad amare ed ammirare i cani. Ma li capisce, letteralmente. Nel suo rifugio accoglie animali provenienti dalle realtà più diverse: abbandonati, randagi, o destinati alla soppressione dai commercianti di animali che non sono riusciti a venderli. I cani, di rimando, lo capiscono. Non ci viene spiegato come questa comunicazione sia possibile, c’è e basta. Loro sono i suoi occhi, le sue orecchie e le sue gambe nel mondo. Il suo non è semplice imprinting o percezione del “capobranco”.
Justin Theroux contro la crudele pratica del combattimento tra cani
La sua storia si apre ai nostri occhi quando viene fermato dalla polizia. Diviene per le autorità una persona non identificabile e misteriosa. Chiamano una psicologa, Evelyn (Jojo T.Gibbs) per cercare di scalfire il suo mistero. Doug pian piano si apre e emergono le sue radici e la sua emancipazione. Scavando sempre più a fondo emerge ulteriormente la purezza di Doug e il suo pressoché impossibile incasellamento in un mondo brulicante, ma vuoto. Solo negli interstizi è possibile trovare la vera essenza delle cose.
I cani di Doug, dal Jack Russell Mickey, al Pastore Belga Polly, sono una cartina di tornasole dell’essere umano ideale. Mostrano la sua essenza più completa: armonioso e mai in conflitto, allergico alla vanità e alla ricchezza dei pochi. Come i protagonisti dei film più celebrati di Luc Besson, i cani sono grado di dare amore e fiducia in maniera incondizionata. Ma sono anche è in grado di mordere se minacciati.