A chi non piacciono i dinosauri? A qualcuno certamente. Ma, ottimisticamente, si potrebbe dire che sono davvero in pochi. Quindi ci si potrebbe chiedere: perché piacciono tanto? I dinosauri rappresentano la fantasia, la bellezza dell’ incredibilmente grande, del colossale. Ma, soprattutto, l’idea che creature così straordinarie e completamente differenti da qualsiasi altra attuale, siano davvero esistite. Mai più nulla di simile portata ha più vissuto e prosperato dopo la loro scomparsa.
Andare a uno zoo, o meglio a uno zoo-safari e poter vedere dal vivo un leone, un rinoceronte, o degli elefanti, è una esperienza incredibile. Immaginiamoci quanto entusiasmante possa essere vedere in carne e ossa un Tyrannosaurus Rex un Triceratops o un Brachiosaurus.
Qui è il pascoliano fanciullo che sta scrivendo. Quindi quanto scritto sopra e quanto sarà scritto sono calde e autentiche emozioni di prima mano. Chi non ha mai avuto la sua prima collezione di dinosauri con cui giocare? O di averne così tanti che ogni cestone, ogni scaffale, ogni angolo della cameretta ne era popolato? Aver così tanti libri al riguardo da dichiararsi aspiranti paleontologi? Chi non è rimasto a bocca aperta guardando, per la prima volta, Jurassic Park (1993) di Steven Spielberg?
Anche se in realtà lo vidi per secondo in quanto avevo dapprima scoperto quello che era il seguito (Il Mondo Perduto – Jurassic Park, 1996 sempre di Spielberg). Fatto sta che mi sono così innamorato di questo film e del suo universo da accettare qualunque prodotto, a scatola chiusa con la sigla “Jurassic” davanti. E non stiamo a parlare di filmetti ignobili fatti con due lire per il mercato home video (che ho visto), ma del franchise originale. Fino ad arrivare al 7 giugno 2018, andando a vedere Jurassic World – Il Regno distrutto di J.A.Bayona che è il n°5. Arrivando a ventotto anni suonati ad emozionarmi come quando ne avevo sei.
Cosa hai provato la prima volta che hai visto un dinosauro? Citando l’ultimo film (e trailer). La mia risposta è magia, miracolo, meraviglia. E chi più ne ha più ne metta. Ma, oltre alla fanciullesca meraviglia, con il passare del tempo, c’è stato molto, molto altro. Per prima cosa la scoperta di uno dei migliori narratori fra scienza, avventura e tecnologia. Ovvero Michael Crichton. Un autore molto interessante. In qualsiasi cosa abbia scritto riflette sulla scienza. Arrivando a esporre teorie come il miglior divulgatore. Ma senza dimenticare l’azione.
Egli è l’autore dei romanzi dai quali è partito tutto, ovvero Jurassic Park (1990) e Il Mondo Perduto (1995). In queste storie fa confluire due elementi: il progresso tecnologico e i limiti che queste operazioni possono condurre, e le sue conseguenze. In questo si è fatto forte, prima di tutto, dell’antefatto distopico del suo film da regista e sceneggiatore del 1973, Il mondo dei robot. In esso si immaginava la possibilità di poter andare in vacanza in un immenso parco tematico, Delos. Si poteva vivere l’esperienza di vivere nell’Antica Roma, nel Medioevo o nel Far West. Il tutto attraverso ricostruzioni maniacali e la presenza di sofisticati figuranti robotici coi quali interagire. Inutile dire che, ad un certo punto, le cose vanno come non dovrebbero e i robot non saranno più così gestibili.
Come impostazione di base Crichton cambia poco. Sostituisce ai robot i dinosauri e l’ingegneria genetica all’intelligenza artificiale. Oltre a ciò le basi sono una sua sceneggiatura inedita del 1983 e il romanzo Carnosaur di John Brosnan del 1984.
La storia di come il miliardario John Hammond abbia fatto rivivere i dinosauri clonandoli dal DNA ritrovato in zanzare intrappolate nell’ambra è nota a tutti. Anche a chi non ha letto il libro o visto il film. Pure la ragione di inserire questi animali in uno zoo-safari preistorico. A differenziare il personaggio del film e del libro sono le motivazioni secondarie. Il personaggio interpretato da Richard Attembrough è più un filantropo. Vuole condividere con il mondo questa scoperta non escludendo, un giorno, di far vivere pacificamente queste creature libere. Un desiderio che il suo precedente cartaceo non si pone minimamente. Si tratta di un tycoon più interessato alle apparenze e al profitto che al rispetto della vita che ha creato.
Il nodo cruciale di tutto, quindi, non riguarda solo i limiti della scienza, ma è qualcosa di prettamente ecologico. Ci si scontra, sia nel dittico di Spielberg che nell’ultimo arrivato, fra chi vorrebbe che i dinosauri siano lasciati liberi e in pace. Soprattutto dopo il fallito esperimento del Jurassic Park. E poi ci sono coloro che intendono sfruttarli economicamente, battendoli all’asta al miglior offerente. Secondo la loro logica, essendo creature ufficialmente estinte da 65 milioni di anni, non hanno alcun diritto né tutela. O scontrarsi, in Jurassic World (2015 di Colin Trevorrow) e Jurassic World – Il regno distrutto, contro il pubblico.
Un pubblico che conosce i dinosauri come le “lucertole terribili” come le aveva definite, nel 1842, il paleontologo Richard Owen. E in virtù di questo vogliono che siano più terribili, con “più denti” non preoccupandosi della pericolosità di tal richiesta. E il fallimento del “Jurassic World”, nato sulle ceneri del “Jurassic Park” (gli ultimi due film non contano, nella cronologia, né Il Mondo Perduto, né Jurassic Park III, 2003 di Joe Johnston) è la prova. Quanto basta all’opinione pubblica sul perché, debbano essere spazzati via da una apocalittica eruzione vulcanica sulla loro isola. A loro avviso. Da qui parte Il regno distrutto. E c’è chi non è d’accordo con ciò.
Per questo, quest’ultimo film è uno dei più apprezzabili della serie. Perché parla sì di dinosauri, ma sono quasi una metafora per parlare di come ci comportiamo noi con gli animali viventi oggi. Di come, spesso e volentieri di fronte alle mattanze ci si giri dall’altra parte, e di come alcuni di essi si sono estinti. Perché li abbiamo ignorati. E siamo ancora arroganti a considerarci migliori perché siamo “la specie dominante” e che tutte le altre stanno di sotto. I dinosauri de Il regno distrutto vogliono anche dire questo. Che un giorno verremo rimpiazzati da qualche altra nuova specie. E loro, che lo sono stati per 120 milioni di anni, hanno tanto da insegnarci a noi “giovincelli” homo sapiens sapiens di 30.000 anni.