I Quechua sono un popolo orgoglioso. Il gruppo etnico più importante dell’Impero Inca, attualmente vive nella zona delle Ande occidentali, fra Perù, Ecuador e Bolivia. Sono agricoltori, allevatori e pastori. Le loro tradizioni religiose sono legate alla Pachamama, la Madre Terra, dea della fertilità, dell’agricoltura e della vita. A essa e agli apu, gli spiriti della montagna, offrono libagioni mediante riti che sono sopravvissuti alla conquista spagnola e alla cristianizzazione. Uno degli animali totem è il condor che rappresenta idealmente il ponte fra la Terra e il Cielo. La lingua omonima è parlata da quattordici milioni di persone nell’arco andino. Esiste una parola che possiede un profondo significato per questo popolo: utama ossia «la nostra casa».

Non è casuale perciò che il regista e fotografo boliviano Alejandro Lojaiza Grisi abbia scelto questa parola per intitolare il suo lungometraggio d’esordio: Utama – Le terre dimenticate, uscito nelle sale italiane il 20 ottobre tramite Officine UBU. Il film ha vinto numerosi premi fra cui il Premio del Pubblico al Festival del Cinema spagnolo e latino-americano di Roma, il Premio Speciale della Critica al Málaga Spanish Film Festival e il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival 2022. Utama inoltre rappresenterà la Bolivia nella categoria Miglior Film Internazionale alla Cerimonia degli Oscar 2023.

Siamo sull’altopiano andino a 3500 metri sopra il livello del mare. Il film racconta la storia di una coppia di anziani Quechua, Virginio e Sisa. La loro quotidianità è scandita da sveglie all’alba e da una semplice routine. Lei si occupa della casa mentre lui porta a pascolare i lama. Per farlo è obbligato a muoversi per ore in un altipiano desertico in cerca di pochi ciuffi di erba e cespugli da far brucare. La sera si scambiano poche parole, davanti al tavolo, di fronte ad una fievole luce. Fra i silenzi emerge qualche timore. Il più ingente è quello riguardante l’acqua. Non piove da più di un anno e i lama, dice Virginio, stanno facendo sempre più fatica a camminare da un pascolo all’altro.
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Dall’altra Sisa è costretta a fare lunghi chilometri portandosi dietro dei secchi da riempire al villaggio, dal quale sono isolati. Quando questo non è possibile, i chilometri da fare per la razione quotidiana di acqua non fanno che aumentare: perché si deve recare al fiume che attraversa la zona. Questi è oramai divenuto un rigagnolo d’acqua largo solo pochi metri attorno al quale si recano le altre donne della comunità per lavare i panni e dissetarsi. Dai discorsi che fa’ con le altre donne, sorge concretamente il timore di Sisa che la vita modesta condotta fino ad ora, può peggiorare a causa della siccità. Una calamità che porta numerosi altri abitanti ad abbandonare la zona, affrontare il deserto su camion che si muovono su piste sterrate e trovare la fortuna in città. Fiduciosi, però, dell’arrivo imminente della pioggia, Virginio e Sisa resistono.
Da quella strada arriva, in direzione opposta, il nipote della coppia, Clever. Con esso arrivano anche prodotti freschi provenienti da casa e una proposta: ossia di trasferirsi in città in quanto la situazione è particolarmente grave. La proposta di Clever si scontra con la determinazione di Virginio a non volersene andare. La sua risoluzione è rafforzata dai pessimi rapporti che intercorrono fra lui e suo figlio, il padre di Clever. Questi infatti riteneva la casa in mezzo all’altipiano, una prigione dalla quale scappare, trasferendosi perciò in città. Virginio si convince che il figlio gli abbia mandato il nipote a fargli questa proposta, a suo avviso, umiliante. In città non c’è nulla per i due nonni, se non spazi ristretti dove non è possibile camminare, apatia e miseria da mendicante.

Virginio vede nel nipote come protesi dell’arroganza del figlio. Lo chiama luhaya ossia moccioso in lingua quechua. Quando, invece, non vede che Clever è un prolungamento (in misura uguale e contraria) della sua stessa caparbietà. Il ragazzo è sinceramente preoccupato per il futuro dei suoi nonni. Vivono isolati in una zona che sta morendo e che non viene minimamente considerata dalle istituzioni. Una logica conseguenza è appunto l’esodo forzato di contadini e pastori verso delle grandi città che non sono in grado di accoglierli. Si va’ a creare così una situazione di disagio che peggiora soltanto le cose.

Queste persone comuni, Virginio e Sisa compresi, sono le vittime più colpite dal cambiamento climatico. Perché sono più vulnerabili perché la terra in cui vivono è la sola casa e fonte di sopravvivenza che conoscono. Per generazioni è stato così; il cambiamento non può essere che doloroso. La trasformazione in migranti climatici è un attimo. Una realtà che può toccare, in futuro, anche noi.
Il tema ambientale è strettamente connesso con il racconto generazionale. Per Clever non esiste nulla di più adatto per vivere della città: egli è nato e cresciuto in quell’ambiente e non conosce null’altro. Quando arriva alla porta dei suoi nonni è con le cuffie alle orecchie e il cellulare sempre a portata di mano. Allo stesso modo Virginio non conosce altro mondo che quello in cui ha sempre vissuto. In tal senso c’è una profonda somiglianza fra nonno e nipote. Gradualmente fra i due c’è un avvicinamento e uno scambio di testimoni.
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Clever è il nuovo che avanza ma che, a differenza del genitore, guarda al passato con interesse perché è lì che si può trovare una soluzione ad un futuro sempre più incerto. Virginio è il passato, la cultura semplice, tradizionale e ancestrale, che comprende quanto il futuro prossimo possa nutrirsi delle esperienze apprese per generazioni. Avendo la possibilità di farlo proprio senza fagocitarlo senza snaturarlo. Si tratta dell’inizio di un nuovo ciclo nel quale le nubi all’orizzonte non sono un cattivo presagio.
