God Save the Green, tante storie, tanti volti, tanti nomi, apparentemente lontani, ma accomunati dal desiderio di rendere migliore il mondo in cui vivono, a partire dal loro, dal loro orto, dal loro spazio verde.
Il fatto
God Save The Green, dal Marocco al Brasile, dal Kenya alla Germania, all’Italia. Tante storie, tanti volti, tanti nomi, apparentemente lontani, ma accomunati dal desiderio di rendere migliore il mondo in cui vivono, a partire dal loro, dal loro orto, dal loro spazio verde. Un ritorno alla terra.
Il commento
Come insegnano tutti i sussidiari nelle scuole elementari, l’elemento che ha permesso il passaggio dalla instabilità del nomadismo alla sicurezza della sedentarietà è stata la scoperta dell’agricoltura. La possibilità di piantare dei semi nel terreno e imitare quanto fa la natura con le piogge, permettendo al seme di germogliare, di diventare una pianta. Un insieme di piante una grande coltura. Da questa coltura trarre il nutrimento per l’intera comunità. La necessità di non dover più cercare le piante commestibili, seguendo i capricci delle stagioni, ma di poterle, invece, “produrre” autonomamente, è stato il principio che ha permesso all’uomo primitivo di abbandonare le caverne, di trovare un ambiente stabile che potesse fare da rifugio. È quello che, sui suddetti sussidiari è il passaggio dall’era “paleolitica” a quella “neolitica”. In altre parole, prima è arrivata la necessità di nutrirsi autonomamente, e solo dopo quella di creare ampi centri urbani.
Questo sembra un messaggio che, nel corso dei secoli si sia andato lentamente perdendo. I popoli antichi basavano tutta la loro economia (o meglio, la loro sopravvivenza) sull’agricoltura: le prime grandi civiltà sono edificate nei pressi di grandi fiumi, dal Nilo, al Tigri e l’Eufrate, alla valle dell’Indo, al Fiume Giallo, etc. Dal Medioevo fino agli albori dell’età contemporanea l’agricoltura era fondamentale. Con la Rivoluzione Industriale (sia la prima, ma soprattutto la seconda) l’uomo è vissuto nella tendenza di costruire delle megalopoli dove stare e non di creare dei luoghi dove vivere. Le guglie e il cemento soffocano la visuale verso il cielo, verso le nuvole, soggetti di sogni e di fantasie, mentre la vera risposta per il futuro è quella di guardare sotto i propri piedi, vedere un bel terreno, affondarci le mani e poter da esso creare. Il futuro è nel terreno in forma di seme e di germoglio.
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Questo invito a guardare verso il basso, a tornare alla terra, è quello che vuole trasmettere il film Good Save the Green oggetto, nel 2013, di un tour di proiezioni a partire da Bologna per poi passare in una specie di tournée in trenta città italiane, da Roma a Parma, a Milano, Imola, Treviso, Genova e Pavia. Il 27 marzo, in vista del 16°mo Festival CinemAmbiente, venne presentato a Torino con gli autori (i documentaristi Michele Mellara e Alessandro Rossi) dal direttore del Festival Torinese Gaetano Capizzi e l’architetto paesaggista Michela Pasquali. Il film partecipò poi a diversi altri Festival e rassegne cinematografiche in tutta Italia e in tutto il mondo, in particolare al “This Human World” di Vienna. Verrà poi presentato in Canada, Svezia, Germania, Francia, Estonia, comprato da diverse emittenti nazionali (fra cui la Rai).
Cosa è dovuto tutto questo successo? Come mai questa ampia approvazione ovunque? Come in un buon documentario di tema ambientale che si rispetti è il messaggio di fondo. Questo invito a guardare verso il basso che si è fatto sentire nella nostra opprimente e iper-tecnologica quotidianità, ascoltando la necessità di avere cibo fresco e salutare, cambiare il posto in cui vivono, cercare il nuovo senso alla parola “comunità”. Questo rappresentava, per prima cosa, l’agricoltura, e i frutti della terra, un senso di comunità che avvicinava i nomadi e li faceva convergere verso un attaccamento al luogo in cui si trovavano, un attaccamento con gli altri membri della socialità. Una socialità affinata non solo dallo zappare il proprio appezzamento l’uno a fianco all’altro, ma anche scambiarsi i prodotti, col baratto, aiutando così i più bisognosi al di sopra di qualsiasi forma di ordine dall’alto. Le istituzioni, le città, il denaro, sono venuti soltanto dopo.
La narrazione si sviluppa in mosaico di storie, da un orto nel centro di Casablanca gestito da un vecchio contadino; una aggregazione di dieci donne in Brasile a Teresina che, grazie alla semplicissima creazione di un orto idroponico, ha permesso di migliorare la propria vita, sia a livello alimentare che sociale; la creazione di orti comunitari a Berlino in posti che, durante la separazione della città, erano “terre di nessuno” e quindi di tutti; agli “orti in sacco” di una bidonville di Nairobi; la creazione di giardini “pensili” in centro a Torino o a Bologna. Il nord e il sud del mondo accomunati da questo desiderio di recuperare il verde come riscoperta di un valore universale. Per costoro la globalizzazione avviene a distanza (sembra un controsenso ma è così) tramite un sentimento comune, un desiderio comune. Rende il mondo un posto più vivibile ma, parafrasando beffardamente Voltaire, guardando il proprio giardino.
Scheda film di God Save the Green
- Titolo originale: (identico)
- Regia: Michele Mellara e Alessandro Rossi
- Soggetto: Michele Mellara e Alessandro Rossi
- Sceneggiatura: Michele Mellara e Alessandro Rossi
- Interpreti: Angela Balardi (voce narrante), Abdellah, Arlete, Franziska, Gaetano, Morris, Mustafa, Petrus, Sebastiana, Till, Mama Lucy, Sadik, Frauke, Domingos, Chiara (loro stessi).
- Produzione: Italia 2012
- Temi: CINEMA, AGRICOLTURA, ALIMENTAZIONE