Until the End of the World, i pericoli dell’acquacoltura intensiva al Clorofilla Film Festival

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Until the End of the World, i pericoli dell’acquacoltura intensiva al Clorofilla Film Festival ultima modifica: 2024-08-06T05:39:36+02:00 da Marco Grilli
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Until the End of the World, lo sconvolgente documentario sui pericoli dell’acquacoltura intensiva arriva al Clorofilla Film Festival

L’acquacoltura è l’industria alimentare, relativamente recente, in maggiore crescita a livello globale. Profitti ingenti che comportano un eccessivo sfruttamento di risorse, il depauperamento dei mari, l’aumento dell’inquinamento, nuove forme di colonizzazione e rischi per la sicurezza alimentare. Documenta efficacemente questi pericoli, ancora purtroppo poco noti, il bel film di Francesco De Augustinis Until the End of the World, in programma a Festambiente al Clorofilla film festival, di cui eHabitat è media partner.

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Il documentario prodotto da One Earth [Italia, 2024, 59′], frutto di una brillante inchiesta giornalistica pluriennale attraverso un viaggio in tre continenti e fino ai confini del pianeta, smaschera i guasti di un’industria che promette falsamente di sfamare in modo sostenibile la popolazione mondiale in continua crescita (nel 2050 sono previste 9,7 miliardi di persone).

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Fortunatamente in varie parti del mondo si stanno mobilitando varie comunità messe a rischio da questo sistema produttivo votato al solo profitto, che non conosce morale ed equità. Nel suo terzo film De Augustinis è andato a cercarle, ricostruendo al contempo accuratamente la complessa e lunga filiera di questa industria e gli interessi che cela.

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L’investigazione parte dall’ultima tappa del viaggio, Punta Arenas, nel Cile meridionale, nota anche come l’ultima città della terra, o più semplicemente la fine del mondo. Ecco come si è arrivati alla frontiera della civiltà umana.

L’Italia ed il boom globale dell’acquacoltura

Quantità enormi di pesci racchiusi nei ristretti spazi degli allevamenti, dove tutto pare iper-controllato, regolare e perfetto a detta dei responsabili. Il regista comincia il viaggio dall’enorme allevamento di trote in Umbria, destinato a rifornire la gran parte di ristoranti, supermercati e laghetti di pesca sportiva del Belpaese. In Italia l’acquacoltura intensiva è un vero e proprio business visto il consumo pro-capite di pesce di ben 30 kg l’anno. In grandi gabbie in mare aperto si allevano principalmente trote, orate e spigole.

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Un’industria cresciuta notevolmente negli ultimi decenni, tanto da arrivare al paradosso che la quantità di pesce allevato nel mondo supera quello pescato. “Oggi l’acquacoltura produce il 50% del pesce che arriva sulle nostre tavole”, spiega Alessandro Lovatelli della Fao. Una crescita notevole registratasi negli ultimi tre decenni.

Eppure proprio le stesse Nazioni Unite ed altri enti internazionali paiono il motore di questa crescita ed il motivo è facilmente comprensibile. Oggi il consumo pro-capite annuale globale di pesce è di 20-21 kg e visto che la popolazione mondiale è in crescita per mantenere questo trend si mira all’aumento di produzione. La sostenibilità pare l’ultimo degli interessi.

La Grecia

Il Paese ellenico, culla della civiltà moderna, è il principale produttore di pesce allevato (130mila tonnellate nel 2021) nell’Unione europea e attira notevoli investimenti dall’estero, grazie anche alle meno regole applicate ed alla facilità delle concessioni. L’obiettivo dichiarato del governo è quello di aumentare la produzione e l’export, le ripercussioni sugli ecosistemi ed il turismo paiono ignorate. De Augustinis visita questi enormi allevamenti in mare aperto così vicini alle aree protette ed intervista i membri delle associazioni locali che lottano per cambiare questo stato di cose.

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Gli allevamenti in Grecia hanno la particolarità di sorgere vicino alla costa, in aree di mare chiuse e caratterizzate dall’assenza di correnti. Fattori che destano preoccupazione nella popolazione, che vede con i propri occhi le terribili conseguenze dell’acquacoltura. Un vero e proprio disastro ecologico causato dall’inquinamento degli allevamenti, con la perdita di biodiversità e forti ricadute sul turismo.

Secondo alcuni studi di impatto ambientale, per ogni mille tonnellate di pesce allevato in Grecia, 1,8 tonnellate di materiale organico, mangimi non consumati, feci, pesci morti e altri scarti vengono riversati in mare”, racconta la voce narrante. La dimostrazione di questo impatto è evidente nella spedizione di un team internazionale di ricercatori nella regione Aetolia Acarnania, documentata dal regista a partire dalla posidonia quasi scomparsa o fortemente deteriorata, perché non trova più ossigeno e luce.

Altrettanto grave la situazione nell’Isola di Poros, dove il nuovo piano per gli allevamenti intensivi di spigole ed orate prevede l’occupazione di un quarto della costa e della superficie. Fino a 270 ettari per produrre circa 9mila tonnellate all’anno di pesce. Mentre il mare si svuota ed il turismo arranca, aziende private straniere sfruttano le risorse del territorio per realizzare ingenti profitti.

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Multinazionali, business ed illegalità

Non mancano poi le illegalità sempre legate alle esigenze di massimizzare la produzione. De Augustinis intervista dipendenti ed ex dipendenti di Avramar – la multinazionale leader del settore in Europa con sede in Spagna – ed Andromeda. Ne esce fuori una realtà di pesci allevati in quantità superiori ai limiti di legge, smaltimenti illegali di pesci morti e malati, violazioni delle norme di sicurezza sul lavoro, utilizzo di sostanze proibite quali la formaldeide.

Avramar, controllata da due fondi sovrani interessati solo ad aumentare la sua produzione per spartire maggiori dividendi, è anche la proprietaria degli allevamenti di Poros. Un tipico esempio di come gli interessi privati dettati dal profitto prevalgano sul bene della collettività, in parole povere una forma moderna di colonialismo che penalizza le comunità locali, come sottolineato amaramente dal sindaco di Poros.

In Africa

Citando il colonialismo risulta impossibile trascurare il continente africano, sin dai tempi remoti tristemente famoso per la depredazione di risorse da parte delle potenze occidentali e per il mercato degli schiavi. Seguendo intelligentemente tutti gli aspetti connessi all’allevamento di pesce, in Senegal il film mette in luce il paradosso dei mangimi necessari all’acquacoltura, composti proprio da farina ed olio di pesce ed altri ingredienti vegetali.

Il pesce mangia il pesce e la quantità di quello pescato per nutrire gli esemplari allevati supera la stessa produzione dell’acquacoltura. La farina di pesce è realizzata infatti con i piccoli pelagici, pesci di scarso valore commerciale ma assolutamente adatti all’alimentazione umana e necessari al sostentamento delle popolazioni locali, anche perché a basso prezzo.

Fino a 30-40 anni fa pareva assurdo allevare salmoni proprio per tal motivo. Oggi non è più così, in barba all’etica. Le interviste scoperchiano la verità: per gli allevamenti servono quantità notevoli di mangimi che rappresentano uno dei maggiori costi aziendali. Risparmiare diventa un imperativo, ecco quindi gli investimenti dall’Europa e dalla Cina per realizzare sempre più fabbriche di farina di pesce in Africa occidentale ed in America Latina, dove la materia prima viene acquisita e trasformata per esser poi esportata proprio in Europa ed in Asia.

Until the End of the World

Nel villaggio di pescatori di Kayar (Senegal) sorge una di queste fabbriche, di proprietà della società spagnola Barna. La sua sostenibilità tanto pubblicizzata si rivela una falsità. L’azienda si sarebbe dovuta limitare a lavorare gli scarti: la realtà è che in un contesto di carenza di pesce sono spariti i pelagici per il sostentamento delle popolazioni locali, i pescatori del posto lavorano sempre di meno ed i banchi al mercato sono rimasti praticamente vuoti.

A causa della penuria generale ed in barba alle leggi i pescatori finiscono per prelevare pure il pesce giovane, che non essendo vendibile sul mercato locale finisce per rifornire proprio le fabbriche. Perfino nel mercato centrale della capitale Dakar i pescatori preferiscono vendere alle fabbriche, disposte a pagare di più, che ai rivenditori locali. Un vero sconvolgimento per l’economia. Nel frattempo nel 2022 il Senegal ha esportato solo in Spagna quasi seimila tonnellate di pesce. Seguendo la filiera ed il sovrasfruttamento delle risorse, il documentario dimostra che l’acquacoltura non è l’alternativa sostenibile all’overfishing e non potrà sfamare la popolazione globale come promette.

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Krill e salmoni 

Il regista si sofferma pure sulla ricerca di alternative più sostenibili alla farina di pesce, dalle farine di insetti a quelle di soia. Nella sua visita ad una fiera internazionale nel nord Italia – dove i produttori paiono più interessati al problema dei costi crescenti dei mangimi che alla sostenibilità – il problema non pare di facile risoluzione, poiché ogni materia prima rivela le sue complicazioni.

Ce n’è una che rischia addirittura di aggravare il quadro, il sempre più ricercato e apprezzato krill, un piccolo crostaceo alla base della catena alimentare antartica, fondamentale per la sopravvivenza di pesci, balene, pinguini, foche ed uccelli marini. Negli ultimi due decenni la pesca del krill si è intensificata notevolmente: all’entusiasmo dell’industria che lo ritiene più sostenibile della farina di pesce, fa da contraltare l’allarme degli scienziati, pronti a denunciare i forti rischi per la biodiversità in un’area già particolarmente colpita dai cambiamenti climatici.

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L’indagine sull’industria che tratta 130 miliardi di pesci a livello globale, puntando più all’aumento della produzione che all’uso equo e razionale delle risorse ed alla tutela degli ecosistemi, si chiude a Punta Arenas, principale base logistica del krill. L’ossessione della crescita a tutti i costi ha portato inoltre alla realizzazione di allevamenti intensivi di salmoni tra i fiordi incontaminati della Patagonia, sollevando gli stessi problemi già riscontrati in Grecia.

Il Cile è diventato il secondo produttore al mondo di salmone, ma fino a pochi anni fa questa specie era addirittura aliena nel Paese sudamericano. Qua l’acquacoltura intensiva occupa sempre più aree protette e risponde agli interessi in primis dei produttori scandinavi e giapponesi, che in Cile hanno trovato meno regole e limitazioni per la loro industria rispetto ai propri Paesi.

Esaustivo e puntuale, “Until the End of the World” è un viaggio necessario che sconfessa falsi miti e denuncia il profitto ad ogni costo. Dietro i pesci in gabbia ci sono gli squali.

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Laureato in Lettere moderne, giornalista pubblicista e ricercatore in storia contemporanea, è consigliere dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea. Nei suoi studi si è occupato di Resistenza, stragi nazifasciste e fascismi locali, tra le sue pubblicazioni il volume “Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia”. Da sempre appassionato di tematiche ambientali, ha collaborato con varie testate online che trattano tali aspetti. Vegetariano, ama gli animali e la natura, si sposta rigorosamente in mountain bike, tra i suoi hobby la corsa (e lo sport in generale), il cinema, la lettura, andar per mostre e la musica rock.

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