Anni fa si diffuse la moda del parlare con le piante: esseri viventi dotati di propria sensibilità, si iniziò a pensare che potessero vivere meglio se sentivano intorno a loro benessere e attenzioni.
Da alcuni anni un gruppo di scienziati le sta studiando, convinto che le piante non siano solo immobili organismi in grado di innescare la fotosintesi clorofilliana, piacevoli e rilassanti creature da usare per l’abbellimento delle nostre case o per la nostra nutrizione, ma esseri viventi in grado di comunicare, stabilire relazioni e sembra, anche imparare. Tra questi studiosi troviamo il professor Stefano Mancuso, direttore del Linv, Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale, dell’Università di Firenze, insieme ad altri collaboratori tra cui Monica Gagliano, ecologa dell’Università della Western Australia. Insieme hanno condotto un esperimento sulla Mimosa pudica o sensitiva, arbusto sempreverde, originario dell’America meridionale, che deve il suo nome all’affascinante capacità di richiudere le foglie durante le ore notturne o se sfiorate.

L’esperimento si è basato su protocolli usati per testare l’apprendimento “per assuefazione” utilizzati normalmente sugli animali. In pratica hanno cercato di indagare quando uno stimolo non importante, viene, grazie all’abitudine, percepito come non significativo e quindi ignorato. A questo scopo hanno piantato in vaso 56 piante di mimosa pudica. Il protocollo prevedeva di far cadere da un’altezza di 15 centimetri le piantine per sessioni composte da 60 cadute. Già dopo cinque o sei cadute le piante tornavano ad aprire le foglie fino a non reagire più con nessun movimento fogliare nel proseguimento del test. Stanche? Mancuso e Gagliano affermano di no perché finita la sessione di “apprendimento”, le mimose, se sfiorate, tornavano a chiudere le foglie ma se fatte cadere nuovamente continuavano a non avere nessuna reazione. E questa mancanza di reazione la si è ritrovata per altri 28 giorni dopo l’esperimento.
Ci troviamo di fronte a schemi di apprendimento che implicano forme di memoria? Secondo Mancuso e Gagliano sì, anche se la questione dell’intelligenza vegetale apre discussioni molteplici soprattutto fra gli addetti ai lavori.
Meno dibattuta anche perché studiata da più lungo tempo è la comunicazione fra piante e fra piante e animali, scambio d’informazioni che può arrivare all’instaurazione di vere e proprie alleanze. Lo dimostra un altro esperimento sempre condotto nel laboratorio fiorentino di Mancuso. In questo caso gli studiosi hanno utilizzato due gruppi di piante e fornito loro le condizioni ottimali per la crescita. In un secondo momento hanno sottratto l’ossigeno al primo gruppo. Il risultato è stato che il secondo gruppo ha iniziato a produrre cambiamenti atti ad evitare la dispersione di ossigeno. Quindi un segnale di pericolo deve essere passato dal primo gruppo al secondo. Rimane adesso da studiare in cosa consistano questi messaggi.
Altri scienziati hanno condotto esperimenti analoghi i cui risultati potrebbero avere importanti ripercussioni sulla coltivazione senza l’uso massiccio di pesticidi e diserbanti. Negli Stati Uniti ad esempio, in particolare nell’Università di Davis, già da vari anni studiano i segnali di pericolo che le piante si scambiano fra loro. Se una pianta subisce un attacco da parassiti o qualcosa che ne simuli la presenza, emette segnali chimici alle piante vicine. Poi a seconda del tipo di pianta, potranno essere prodotte tossine, modificato il sapore o anche chiamati insetti nemici dell’agente patogeno in soccorso.
Possiamo continuare a considerare le piante semplici oggetti?

Mai considerarle semplici oggetti ma VITA
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