Tra i circa 200 film che anche in un anno di crisi e di tagli al bilancio hanno fatto parte del fitto programma del Torino Film Festival 32, due in particolare spiccano per i loro temi e per le riflessioni che portano a fare: “Qui” di Daniele Gaglianone e “Habitat” di Emiliano Dante.
Tra i circa 200 film che anche in un anno di crisi e di tagli al bilancio hanno fatto parte del fitto programma del Torino Film Festival 32, due in particolare spiccano per i loro temi e per le riflessioni che portano a fare: “Qui” di Daniele Gaglianone e “Habitat” di Emiliano Dante.
Il primo è stato presentato fuori concorso, nella neonata sezione Democrazia, e intende far luce su uno dei ‘grandi temi’ italiani degli ultimi anni, quello del movimento No Tav che in Valle di Susa si sta battendo da circa 25 anni per non far realizzare un’opera imponente (e per molti inutile) che andrebbe a distruggere ancor più un territorio già ampiamente sottoposto a cementificazione e inquinamento, ma che mai è stato ascoltato dalle autorità competenti che – anzi – hanno sempre reagito con violenza e attaccando il ‘movimento’ tacciandolo di terrorismo e pericolosità, agendo di forza e prepotenza con l’apparente complicità di molti media.
Gaglianone osa l’inosabile, dando voce ai temibili manifestanti che si rivelano essere per lo più persone comuni, ragazzi e anziani, politici locali e padri di famiglia che, per la prima volta, hanno lo spazio e il tempo di spiegare le loro ragioni e le loro richieste (“Siamo stati anni a mendicare un incontro con qualche membro del governo, ma solo dopo le prime manifestazioni di una certa imponenza abbiamo avuto ascolto”, spiega il sindaco di Venaus). Un’opera essenziale nella forma ma non nei contenuti, che sfiorano le due ore ma avrebbero potuto anche durare di più, perché la gente a cui in questi anni è stata negata la parola in Valle è numerosa…
Significativo in questo senso il premio Gli Occhiali di Gandhi assegnato al documentario dal Centro Studi Sereno Regis, un attestato ‘di pace’ per un film scomodo.
Altra opera che mette lo spettatore di fronte a ciò che in Italia non funziona (o, quantomeno, non ha funzionato) come dovrebbe è quella di Dante, inserita nel concorso Italiana.Doc ma ingiustamente ignorata dalle giurie intitolata “Habitat – Note personali“.
Cinque anni fa il regista era stato al TFF con il suo primo lavoro, “Into the blue”, opera estremamente personale che da dentro le tendopoli raccontava l’impatto che il terremoto de L’Aquila – appena avvenuto, a quei tempi – aveva generato in chi era sopravvissuto, di come venisse reggimentata la vita nei campi (tra prigionia e caserma…) e di come gli aquilani cercassero un modo di superare la situazione.
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Oggi torna ad affrontare quei temi con un lavoro decisamente interessante, ancora se possibile più personale di quello: lo spaesamento di chi è stato costretto a vivere nelle cosiddette new town, situate a molti chilometri di distanza dal vecchio centro città, il senso di solitudine che ha pervaso tutti gli aquilani all’indomani della tragedia, l’assenza (nel migliore dei casi) della politica dal vero quotidiano dei cittadini, quello lontano dalle telecamere. Tutto viene raccontato guardando a se stesso e al suo ristretto cerchio di amicizie, mischiando (a volte confusamente, a volte meno) linguaggi diversi e messaggi diversi, ma dando allo spettatore lontano da quei luoghi una sensazione quasi palpabile di quanto provato.
Due lavori importanti, due riflessioni necessarie sull’Italia e su come viene gestito (anche) il problema del nostro territorio.