Il biopic scelto come film di chiusura del 42° Torino Film Festival, Waltzing with Brando mostra l’attivismo ecologico del grande attore
«Da 200 anni diciamo al popolo indiano che lotta per la sua terra, la sua vita, le sue famiglie e il suo diritto alla libertà: “Deponete le armi, amici miei, e poi rimarremo uniti. Solo se deponete le armi, amici miei, possiamo parlare di pace e raggiungere un accordo che vi farà bene”. Quando hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Gli abbiamo mentito. Li abbiamo derubati delle loro terre. […]. E da qualsiasi interpretazione della storia, per quanto contorta, non abbiamo fatto bene».
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Questo è parte del discorso che la nativa americana Littlefeather pronunciò alla notte degli Oscar del 27 marzo 1973. La giovane è salita sul palco dell’Academy, fra fischi e schiamazzi del pubblico, in vece di Marlon Brando che era stato premiato per l’interpretazione di Vito Corleone ne Il padrino (1972). La grande star hollywoodiana, punto di riferimento per generazioni di attori, è sempre stata restia a inserirsi all’interno di una industria sempre più ipocrita e dannosa ai suoi occhi. Con questo gesto ha rifiutato il suo premio – il precedente Oscar per Fronte del porto (1954) lo utilizzava come fermaporta. Così facendo ha espresso il suo pieno supporto alla causa dei nativi americani, da sempre vittime di razzismo, all’opinione pubblica. Brando dimostra così il suo attivismo per le cause civili, come il movimento guidato da Martin Luther King a cui aveva dato lauti finanziamenti nel corso degli anni Sessanta.
L’attivismo di Brando, tuttavia, non si fermava ai diritti civili, ma aveva una vasta gamma di interessi. Fra un film e l’altro, per sfuggire all’establishment di Hollywood si rifugiava nella sua casa a Tahiti, nella Polinesia Francese. Una casa con sempre la porta aperta e dove poteva entrare qualunque ospite gradito. L’abitazione si affacciava su di una baia. Di fronte a essa si trova l’atollo di Tetiaora: una riserva naturale circondata da una barriera corallina altrimenti impenetrabile. Il sogno di Brando è quello di costruire una casa su di un lato dell’isola, nella quale congedarsi definitivamente dalle scene. L’edificio doveva seguire tutti i requisiti di una unità abitativa che non danneggiasse la biodiversità dell’isola.
Per farlo, si rivolge all’allora promettente architetto Bernard Judge (1931 – 2021), specializzato in pianificazione ambientale e conservazione storica. Sua, completata nel 1962, è la “Triponent House”, una cupola geodetica per trovare una soluzione economicamente valida per l’edilizia abitativa. Questo lo porta, oltre a numerosi riconoscimenti nel settore, ad essere mandato nel 1969 nella Polinesia Francese a mettere mano a un progetto innovativo voluto da un cliente che, all’inizio, risulta misterioso: Brando, per l’appunto.
Si tratta di un progetto faraonico. Assieme alla villa dell’attore è prevista la creazione, sull’altro lato dell’isola di un resort (costruito secondo i medesimi parametri delle altre costruzioni) che gestirà lo stesso Brando per mantenersi fuori dai riflettori. Un progetto che è pieno di insidie logistiche e anche finanziarie. L’attore viene, ad un certo punto, messo ad un bivio. Ossia rinunciare da una parte al suo progetto; dall’altra accettare il ruolo offertogli per quel «dannato film di gangsters» il cui personaggio prova e sperimenta mettendosi dei batuffoli di cotone nelle guance. Quel film di gangster e Ultimo tango a Parigi (1974) di Bernardo Bertolucci sono i film a cui Brando partecipa, in veste di puro artigiano della recitazione, per poter finanziare il suo sogno fra il 1969 e il 1975.
Questa è la durata del rapporto fra Brando e Judge a Tahiti. Questi scriverà, nel 2011 il libro Waltzing with Brando – Planning a Paradise in Tahiti, in cui racconterà la sua vita a Tahiti e il rapporto con Brando. Un personaggio estremamente lontano da quello che si vedeva sullo schermo e nelle interviste e comparsate pubbliche. Se in questi casi era schivo, di poche parole, dando spesso e volentieri risposte taglienti nei confronti di interlocutori troppo curiosi.
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Al di fuori di essi era un uomo affabile e facile alla battuta e allo scherzo, sfruttando anche la sua abilità recitativa che ingannava qualsiasi interlocutore. Judge era vittima prediletta dei suoi scherzi goliardici e entra nella sua vita, con una amicizia che durerà negli anni. Quello che conosce Bernard è un uomo naif che non esitava a gettarsi in mare o sotto una cascata indossando una semplice maschera da sub. Che si nutre e vive con passione la semplicità della vita degli isolani. Un uomo che aveva ben chiaro quale fosse il ruolo dell’uomo nella Natura e la sua pericolosità per gli ambienti più delicati e incontaminati.
Da questo ritratto che Bill Fishman ha tratto Waltzing with Brando, film di chiusura Fuori Concorso del 42° Torino Film Festival. Titolo fortemente voluto per chiudere la manifestazione dal direttore Giulio Base, a conclusione di un percorso sul divo. Non è stato solo l’immagine del Festival di quest’anno, ma anche oggetto di una retrospettiva critica che ha presentato al pubblico 24 titoli della sterminata filmografia di Brando. Dai film più blasonati come Apocalypse Now (1979), Un tram chiamato Desiderio (1951) a quelli meno conosciuti come Désirée (1954) o Gli ammutinati del Bounty (1962).
Proprio sul set di quest’ultimo, girato a Tahiti nel 1962, che Brando si innamora di questi luoghi, della sua semplicità e della sua popolazione. E da qui inizia a covare il suo sogno di fuga raccontato i Waltzing with Brando (il cui 10% dei redditi sono destinati alla Tetiaora Society, l’organizzazione no profit che si prefigge di ripristinare le condizioni naturali dell’atollo attraverso la reintroduzione di fauna e flora locale. Come la fuga dalla civiltà occidentale nazifascista di Eden che ha aperto il Festival. Due desideri di fuga e di reinventarsi condivisibili.