Killers of the Flower Moon il western di Martin Scorsese racconta la strage degli indiani Osage per il petrolio.
«L’America è nata nelle strade». Così recitava il tagline di Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese. A ventun anni dal racconto degli scontri fra le bande dei Five Points di New York a inizio del XX secolo Scorsese, per la prima volta nella sua carriera, affronta uno dei miti fondativi dell’America. Ossia il western, con l’insensato scontro fra i Bianchi e i Nativi. Lo fa in The Killers of the Flower Moon prodotto da Apple TV Plus, in sala dal 19 ottobre, dopo essere stato presentato Fuori Concorso all’ultimo Festival di Cannes.
Ovviamente Scorsese racconta il mito della frontiera a modo suo, ossia lasciandolo sullo sfondo. Infatti definire questo film un western è assolutamente improprio. Le ambientazioni sono quelle, seppure nella forma crepuscolare figlia della New Hollywood, movimento di rinnovamento del cinema statunitense nato alla fine degli anni ’60. Martin Scorsese, assieme a Steven Spielberg, a George Lucas e Michael Cimino è stato uno dei suoi maggiori rappresentanti. Questa nuova corrente aveva l’intenzione, tramite il lavoro di giovani registi provenienti soprattutto dalle scuole di cinema, di rivedere e correggere le numerose ipocrisie che il cinema classico americano aveva portato avanti.
Nello specifico del genere western, raramente i Nativi o personaggi non caucasici erano positivi. La norma era l’esatto contrario. Questo lo dimostrano anche opere canoniche non solo per il genere, ma anche per il cinema come Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) di John Ford. Il “Pellerossa” è sempre stato descritto come un nemico da combattere, la minaccia costante alla felicità e alla serenità dello stile di vita americano. Un nemico da combattere, da vincere e da respingere dove non può nuocere, ossia nelle riserve che hanno relegato le principali tribù Native e che persistono tutt’ora.
Fra queste vi è la Nazione Osage, attualmente residente nella omonima contea dello Stato dell’Oklahoma. Sono originari delle Grandi Pianure, nello specifico, fra i fiumi Osage e Missouri. Infatti uno dei nomi che si danno è “Figli delle acque di mezzo”. Nella loro cultura essi discendono direttamente dal il Sole come “nonno” e la luna come “madre” e la Terra come “nonna” che fornisce loro tutti i mezzi per sopravvivere. Essa è una manifestazione del “Wakonda” ossia la forza spirituale che permea tutto l’Universo.
In un certo senso anche lo spostamento forzato dal Missouri all’Oklahoma fra il 1870 e il 1873 faceva parte di questo disegno. Il territorio che venne dato loro dal Governo Federale era collinoso e quindi non coltivabile. Agli inizi del XX secolo gli Osage scoprono che quel territorio è pieno di petrolio. Ne divennero gli assoluti proprietari e il popolo con il prodotto interno lordo più alto al mondo. Grazie a ciò la città di Fairfax diventa uno delle principali centri della Contea di Osage.
Proprio da questo punto prende le mosse il film di Scorsese tratto dal libro di David Grann, Gli assassini della terra rossa. Si parte da un doloroso allontanamento dalla cultura e dalla spiritualità. La prima immagine è l’addio a esse con il seppellimento del calumet, simbolo non solo di pace ma di tutto un modo di vedere e pensare. Gli anziani in lacrime recitano gli antichi canti e ne fanno un funerale in piena regola, osservati dai giovani. Le grida di gioia di questi ultimi seppelliscono le lacrime degli anziani quando la Terra sputa loro addosso il petrolio. Attorno a quel pozzo primordiale i giovani ex guerrieri improvvisano una danza propiziatoria.
È la fine di un’era e l’inizio di un’altra di presunta prosperità fatta di Royalties, macchine di lusso, giovani mandati a studiare nelle più prestigiose università. Il tiro con l’arco, dapprima fonte di nutrimento, è divenuto uno svago, così come domare i cavalli è solo uno spettacolo da rodeo. Le grandi pianure in cui crescevano i fiori e i frutti si disseminano di tralicci per il pompaggio dell’oro nero. A perdita d’occhio la Tribù affitta le proprie terre ai Bianchi per trivellarle. I rapporti fra i due popoli, in apparenza, è di sostanziale ribaltamento dei ruoli. Gli Osage hanno l’illusione di poter controllare il loro mondo.
Ma non è così: molti di essi sono pesantemente indebitati e hanno un accesso limitato al loro denaro per via di tutori ed intermediari governativi. Fra questi vi è William Hale (Robert De Niro), ritenuto un benefattore dalla Tribù. In realtà un machiavellico imprenditore che, assieme agli altri Bianchi di Fairfax – al soldo delle principali compagnie petrolifere – mira a impossessarsi delle ricchezze degli Osage.
A questo scopo richiama a casa, reduce dalla Prima Guerra Mondiale, il nipote Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio). Questi è un uomo ingenuo e avido di soldi e di donne. Lo zio sfrutta queste sue debolezze a proprio vantaggio, avvicinandolo alla giovane “Rossa” Mollie Kyle (Lily Gladstone) la quale, assieme alla madre e alle sorelle, possiede numerose licenze petrolifere. La famiglia Kyle sarà una delle principali vittime di una catena di omicidi da parte dei Bianchi per ereditare suddette licenze. Decine di persone uccise, fra il 1921 e il 1925, intere famiglie e donne uccise dai loro mariti Bianchi per questa ragione.
La frontiera è lo sfondo. Killers of the Flower Moon è un’autentica epopea (206’ di durata) su quanto il desiderio del denaro e del possesso abbia radici profonde come un pozzo petrolifero. Nessuno, né i Bianchi né gli Osage, viene risparmiato. Questi ultimi si rendono conto troppo tardi di quanto siano stati sciocchi ed ingenui. Hanno dimenticato loro stessi e il rapporto profondo con i loro antenati e con la Natura circostante. Assoggettandola non si sono resi migliori dei loro presunti nemici. La pioggia di petrolio da nera si fa rossa, come la loro pelle vista dai Bianchi, come il sangue che sgorga a fiumi.
Il passaggio dal mondo ancestrale a quello “civilizzato” viene mostrato da Scorsese con la stessa attenzione con cui aveva mostrato il Giappone dei samurai in Silence (2016) o il Tibet dei Dalai Lama in Kundun (1997). Dei mondi apparentemente lontani anche se, a volte, sono terribilmente vicini. Lo sfruttamento di chi e cosa ci circonda non ha latitudini.