Kevin Costner presenta Fuori Concorso a Venezia81 la seconda parte del suo Horizon: An American Saga
Kevin Costner è un’icona. Che piaccia o no è diventato simbolo di una generazione, fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Il suo viso squadrato rimasto invariato nel tempo, lo sguardo ceruleo e i modi gentili lo hanno reso (salvo poche eccezioni) l’eroe per eccellenza al cinema. Da Robin Hood in Robin Hood – Il principe dei ladri (1991) a Waterworld (1995) entrambi di Kevin Reynolds; da The Untouchables – Gli Intoccabili (1987, Brian De Palma) a JFK – Un caso ancora aperto (1991, Oliver Stone). Una parabola che arriva fino a L’uomo d’acciaio (2013, di Zack Snyder) in cui è il padre adottivo di un altro eroe: Clark Kent/ Superman (Henry Cavill).
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Costner rappresenta l’eroismo, i buoni sentimenti che lo rendono più vicino ai protagonisti del cinema classico, quando non c’era ancora la moda dell’antieroe. Il suo modello è l’uomo del West, pistolero, mandriano o ufficiale questo non è importante. Purché porti avanti dei buoni valori o li abbracci. Incarna e rende vitale un modo concepire il protagonista che si è perso. Questi valori li porta anche fuori dallo schermo: infatti si impegna da oltre trent’anni nella lotta contro l’inquinamento degli oceani. Per lui non è una scelta romantica o di moda. Per Costner è un impegno costante per il bene comune. Siamo artefici del nostro destino. Quello del pianeta dipende anche da noi, dal singolo prima e dalla comunità poi.
Una ideologia che lui applica anche al cinema. Sia nei suoi personaggi che nei suoi lavori da regista, a partire da Balla coi lupi (1990) vincitore di sette premi Oscar fra cui Miglior Film e Miglior Regia. Qui interpretata John Dunbar, un ufficiale Unionista durante la Guerra di Secessione (1861 – 1865) mandato in avanscoperta nel remoto Nebraska. Trovatosi da solo in un avamposto abbandonato egli passa le sue giornate a sistemare quello che rimane dell’insediamento. Nel mentre annota tutto quello che vede nel suo diario. Si trova in un territorio dove la natura è ancora priva delle tracce dei coloni. Un posto in cui i nativi possono definire quel territorio casa.
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Dunbar lega con la vicina tribù di Sioux, iniziando a apprezzarne i valori lontani anni luce dalla violenza e cinismo degli occidentali. La tribù prende dal territorio che li circonda solo il necessario per vivere, senza il bisogno del superfluo. Come la caccia ai bisonti che non è un’inutile mattanza compiuta dall’uomo bianco.
Lo sguardo di Costner è rivolto ai Nativi, uomini liberi dalle imposizioni di una società deleteria. Un deterioramento causato dall’avidità e dalla noncuranza, che porta alla fine le civiltà: che sia quella dell’isola di Pasqua in Rapa Nui (1994 di Kevin Reynolds) o quella post apocalittica di Waterworld, sommersa dal riscaldamento globale, entrambi titoli da lui prodotti.
Non è un caso che Balla coi lupi sia ambientato nel corso della Guerra Civile. È proprio sul finire del conflitto (1865) che inizia la vera e propria conquista del West da parte del Governo statunitense. Per Costner il mito della frontiera è, prima di tutto, una lotta di prevaricazione sul prossimo che coinvolge chiunque. Tutti hanno uno scopo e una motivazione che li spinge ad andare oltre. Come nei western classici possono essere il desiderio di ricchezza oppure voler cambiare vita. Ricercare quello che, altrove, è andato perso.
Per questo Balla coi lupi si può collegare con l’ultima fatica registica di Costner, Horizon: An American Saga. Un’opera corale e monumentale di cui sono previsti quattro capitoli per un totale di quasi dodici ore. Il primo capitolo è stato presentato Fuori Concorso al 76° Festival di Cannes. Ha avuto una breve uscita al cinema (in Italia dal 4 Luglio) guadagnando un tiepido successo che ha rischiato di compromettere il completamento dell’operazione.
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Il secondo capitolo è stato presentato in anteprima mondiale Fuori Concorso alla 81° Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia il 7 settembre. Dopo la proiezione del primo film al mattino, la seconda è avvenuta nel pomeriggio con la presenza di Costner e alcuni membri del cast in sala, fra cui Luke Wilson (Idiocracy, 2006 di Mike Judge) e Abbey Lee (Mad Max: Fury Road, 2015 di George Miller ). L’accoglienza è stata calorosa sia quando le luci in sala erano accese sia quando si sono spente.
Horizon rappresenta la summa del cinema e della visione della Frontiera di Costner. Lo fa con le vicende di vari personaggi fra il 1859 e il 1863: dal mandriano Hayes Ellison (Costner) che si ritrova a dover difendere la vita di una giovane prostituta Marigold (Lee); al capo carovana Matthew Van Weyden (Wilson) che porta la sua gente verso la comunità colonica di Horizon nella San Pedro Valley. Più che un luogo reale sembra qualcosa di biblico, una Terra Promessa pubblicizzata su accattivanti volantini. Un territorio in cui è difficile arrivare, in cui è difficile vivere una volta giunti. Questi uomini cercano di mettere paletti a spazi incontenibili. Tracciare dei confini e dare loro un nome significa impossessarsene.
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Siamo in periodo in cui l’economia di mercato sta prendendo il posto dello scambio di risorse e beni naturali. Per Costner questo rappresenta l’inizio della fine di tutto. Quando, durante, un duello, al suo personaggio vengono gettati ai piedi dei soldi, egli si rifiuta di prenderli. Quello che ha già lo possiede. Nel frattempo H. Silas Pickering (Giovanni Ribisi, Avatar) uno speculatore che, dal cuore di Chicago, stampa i volantini su Horizon promettendo fortuna, disinteressato dei rischi e dei pericoli a cui i malcapitati possono andare incontro. Anche lui si mette in viaggio verso Ovest.
Il viaggio continua e siamo pronti a salire su quel treno anche noi.