Le malattie zoonotiche sono sempre più frequenti e gravi, lo studio del JRC analizza le causa antropiche e mappa i focolai globali di rischio
“In che modo le attività umane contribuiscono all’insorgenza di malattie zoonotiche che possono portare a epidemie e pandemie?”. A questa domanda ha risposto uno studio del Joint Research Centre (JRC) della Commissione europea, pubblicato su Science Advances, che oltre ad analizzare i fattori antropici ha elaborato anche una mappa globale delle aree più esposte al rischio di zoonosi ed un indice di rischio epidemico, che combina il rischio specifico dei Paesi con le loro capacità di preparazione e risposta alle minacce zoonotiche.
“La nostra analisi dei fattori comuni che determinano le malattie prioritarie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità suggerisce che le condizioni climatiche, tra cui temperature più elevate, livelli di precipitazioni annuali più elevati e deficit idrici, aumentano il rischio di epidemie. Inoltre, i cambiamenti nell’uso del suolo, l’invasione umana delle aree boschive, l’aumento della popolazione e della densità del bestiame e la perdita di biodiversità contribuiscono a questo rischio, con la perdita di biodiversità che mostra una relazione complessa e non lineare”, scrivono gli autori dello studio.
“Il lavoro del JRC non è soltanto un’analisi scientifica, ma un strumento strategico di prevenzione, utile per i decisori politici e per le istituzioni sanitarie nel pianificare interventi mirati e contenere il rischio di nuove pandemie”, sottolinea l’International Society of Doctors for Environment (ISDE).
Le cause antropiche delle malattie zoonotiche
A livello globale si stanno rivelando sempre più frequenti e gravi le epidemie e pandemie causate dal cosiddetto spillover zoonotico, ovvero dalla trasmissione di agenti patogeni dagli animali all’uomo. I cinque gruppi principali di fattori antropici che influenzano il rischio di zoonosi già individuati dalla ricerca scientifica sono: i cambiamenti climatici, le dinamiche della popolazione umana, la produzione zootecnica, l’intensificazione agricola e la perdita di biodiversità.
“I cambiamenti climatici possono influenzare il rischio di malattie infettive rimodellando gli habitat dei patogeni e i loro serbatoi. Le specie animali da allevamento spesso fungono da ospiti per i patogeni zoonotici, aumentando il rischio di trasmissione di malattie all’uomo, in particolare quando situate in prossimità di aree urbane e caratterizzate da pratiche di biosicurezza e allevamento non ottimali. L’espansione e l’intensificazione agricola hanno conseguenze ambientali di vasta portata, come la deforestazione, la defaunazione, il degrado del suolo e l’inquinamento delle acque, che possono, a loro volta, influenzare il rischio di insorgenza di malattie infettive. I cambiamenti ambientali derivanti dalle attività umane, in particolare il degrado degli ecosistemi, sono tra i principali fattori di perdita di biodiversità che, a sua volta, influisce sul rischio di malattie zoonotiche”, si legge nello studio.
Il cambiamento climatico provocherà nuove pandemie?
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha elencato le malattie prioritarie, ovvero gli agenti patogeni potenzialmente capaci di causare gravi emergenze di salute pubblica, tra cui epidemie e pandemie. Tale priorità intende orientare gli sforzi di ricerca globali per poter affrontare e mitigare i potenziali focolai zoonotici. L’elenco include: COVID-19, febbre emorragica Congo-Crimea (CCHF), malattia da virus Ebola, febbre di Lassa, sindrome respiratoria mediorientale (MERS), sindrome respiratoria acuta grave (SARS), malattia da virus Marburg (MVD), malattia da virus Nipah (NiV), febbre della Rift Valley (RVF), Zika e la cosiddetta “Malattia X”. Lo studio in questione ha indagato la relazione tra nove fattori chiave di origine antropica ed il rischio di epidemia di malattie prioritarie dell’OMS, escluso il COVID-19.
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Gli esiti dello studio
Le simulazioni del JRC, basate sulla combinazione di machine learning e dati satellitari, hanno classificato a rischio alto o molto alto di nuove epidemie ben il 9,3% della superficie terrestre (6,3% alto, 3% molto alto). Le aree più esposte si ritrovano in America Latina (27,1%), Oceania (18,6%), Asia (6,9%) ed Africa (5,2%), mentre il rischio è molto più contenuto in Europa (0,2%) e Nord America (0,08%). Ragionando in termini di popolazione globale, circa il 20% si ritrova in zone a medio rischio, mentre il 3% risiede in territori a rischio alto o molto alto.
Ai fini dello studio, i nove potenziali fattori delle malattie prioritarie dell’OMS sono stati raggruppati in tre categorie: fattori climatici (temperatura, precipitazioni e deficit idrico), fattori ambientali (prossimità uomo-foresta, perdita di biodiversità, densità del bestiame e frequenza del cambiamento dell’uso del suolo) e popolazione (densità di popolazione).
“Questo studio evidenzia il ruolo cruciale dei fattori ambientali, climatici e sociodemografici nel determinare il rischio di malattie con potenziale epidemico e pandemico. Esaminando queste interconnessioni, forniamo informazioni sui fattori che aumentano il rischio di malattie e offriamo indicazioni per strategie mirate di prevenzione e intervento. I nostri risultati mostrano che i fattori climatici, tra cui temperature più elevate, maggiori precipitazioni e scarsità d’acqua, sono fattori chiave delle epidemie, con il cambiamento climatico che crea nuove vulnerabilità rimodellando la distribuzione geografica del rischio. Ciò sottolinea le necessità di un monitoraggio continuo e dell’integrazione degli sforzi di adattamento e mitigazione del clima nella pianificazione della salute pubblica”, scrivono gli autori di questa importante ricerca.
In merito ai fattori climatici, lo studio conferma che le aree costantemente più calde con temperature massime e minime più elevate sono più inclini alle epidemie, “questa osservazione è cruciale perché, dato che il pianeta si riscalda in modo non uniforme, anche le regioni più fredde potrebbero alla fine raggiungere condizioni adatte per queste malattie”, sottolineano i ricercatori.
Passando ai fattori ambientali, i risultati dello studio ribadiscono che l’elevata densità del bestiame negli allevamenti è correlata ad un maggior rischio di epidemie per l’uomo, ma oltre una certa soglia di densità il rischio si stabilizza e diventa meno prevedibile. Ciò è dovuto alla rilevanza di altri fattori (pratiche di gestione agricola, misure di biosicurezza, procedure di movimentazione del bestiame ecc.) che possono mitigare o esacerbare il rischio di un’epidemia, indipendentemente dalla densità del bestiame.
L’espansione dei pascoli per il bestiame è comunque uno dei principali fattori di cambiamento nella gestione del territorio per le esigenze umane, insieme all’intensificazione delle colture ed allo sviluppo urbano. “Circa la metà delle malattie zoonotiche emergenti è attribuita a cambiamenti nell’uso del suolo, nelle pratiche agricole, nella produzione alimentare e nella caccia alla fauna selvatica. La nostra analisi rivela che cambiamenti più frequenti nell’uso del suolo aumentano il rischio di un’epidemia, sottolineando l’importanza di comprendere l’impatto della gestione del territorio sull’emergenza delle malattie”, si legge nello studio.
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I ricercatori sottolineano inoltre che il rischio di epidemie aumenta sia con la diminuzione della distanza tra uomo e foresta, sia – in modo più drastico – quando progressivamente l’ecosistema perde circa il 20% della sua ricchezza di specie animali e vegetali. “Un’ulteriore perdita di biodiversità porta a una diminuzione del rischio, per poi aumentare nuovamente e infine stabilizzarsi a livelli più elevati di perdita di biodiversità”, chiariscono gli autori. Tali esiti sottolineano l’importanza delle pratiche sostenibili di uso del suolo e degli sforzi di conservazione per prevenire un pericolo, la distruzione degli habitat, che potrebbe favorire condizioni favorevoli alla trasmissione delle malattie.
Infine, in linea con altri precedenti studi che hanno dimostrato la correlazione tra la crescita della popolazione umana ed il rischio di malattie infettive emergenti, anche i risultati di questa ricerca ribadiscono che “l’impatto della densità di popolazione sul rischio complessivo di epidemie è sostanziale, superando i contributi di altri fattori individuali. Abbiamo osservato che, quando tutte le altre variabili sono mantenute costanti, l’effetto marginale della densità di popolazione si traduce in un rischio molto più pronunciato rispetto ad altri fattori”. Per la mitigazione di questi rischi occorre dunque intensificare gli sforzi di pianificazione urbana incentrati sullo sviluppo delle infrastrutture, sui servizi igienico-sanitari e sulla riduzione delle disuguaglianze urbane.
L’indice di rischio epidemico nazionale
Questo studio ha avuto pure il merito di sviluppare un indice di rischio epidemico nazionale per integrare il rischio con la capacità di rispondere alle epidemie zoonotiche. “La traduzione di queste stime di rischio in un indice di rischio epidemico consente di identificare le aree ad alto rischio e supporta i decisori politici nel migliorare le capacità di risposta, nell’allocazione efficace delle risorse e nella promozione della collaborazione internazionale per affrontare le minacce sanitarie globali”, sostengono gli autori dello studio.
Tale indice classifica Papua Nuova Guinea e Repubblica del Congo al primo posto a causa di sistemi sanitari poco efficienti, mentre la maggior parte dei Paesi è stata ritenuta esposta ma resiliente.
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“I nostri risultati indicano che, mentre alcuni paesi mostrano una relazione lineare tra il rischio di epidemia e il rischio epidemico, altri possono ridurre il loro rischio attraverso efficaci capacità di risposta zoonotica”, scrivono i ricercatori, che hanno così evidenziato l’importanza della capacità di risposta nella mitigazione del rischio.
In conclusione, questo prezioso studio rappresenta una solida base per comprendere e mitigare i rischi di malattie epidemiche e pandemiche. “Affrontando considerazioni relative alle dinamiche temporali e alle variazioni regionali del rischio, la ricerca futura potrà ulteriormente perfezionare i modelli predittivi e supportare interventi di sanità pubblica basati sull’evidenza. Ampliare le collaborazioni interdisciplinari e migliorare la raccolta di dati sulle epidemie, sia umane che animali, sarà fondamentale per sviluppare strategie adattive e complete per gestire efficacemente le nuove minacce per la salute globale”, l’auspicio degli autori.
[Credits foto: PublicDomainPictures su Pixabay]
