2073 di Asif Kapadia, film presentato all’ultimo Festival di Venezia e uscito nelle sale italiane a giugno, è un messaggio per un futuro evitabile.
«L’ingresso emanava un lezzo di cavolo bollito e di vecchi e logori stoini. A una delle estremità era attaccato un manifesto a colori, troppo grande per poter essere messo all’interno. Vi era raffigurato solo un volto enorme, grande più di un metro, il volto di un uomo di circa quarantacinque anni, con folti baffi neri e lineamenti severi ma belli».
Questo è uno dei primi paragrafi di 1984 (1948) di George Orwell (1903 – 1950), uno dei principali romanzi del genere distopico. Si tratta di quella costola del genere fantascientifico nel quale si immagina un mondo futuristico in negativo, qualcosa anti-utopico, proprio come vuole suggerire il termine stesso.
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È la metafora di un futuro che non vogliamo ma che, in qualche modo si potrebbe vivere. Un mondo non paritario dove una politica estrema, un “Grande Fratello” (come quello descritto da Orwell nel suo romanzo) può prendere piede e assoggettare le masse. Un equilibrio paranoide e con l’ossessione del controllo su chi è il vero nemico di un simile potere: le persone. Più numerose e più temibili e per questo da addormentare e da schiacciare se necessario.

La distopia contamina anche altri sottogeneri della fantascienza come il cyberpunk (per citarne uno) e anche gli altri media. In ordine sparso: nella musica con l’album The Resistance (2009) dei Muse; nel fumetto con V per Vendetta (1982 -1985) di Alan Moore; nel cinema e nella televisione con Snowpiercer (2013) o Blade Runner (1982). Prodotti che dialogano fra di loro, che si originano l’uno dall’altro in un continuo gioco di assonanze ma che hanno, in comune la partenza. Una situazione attuale da cui lanciare un appello forte e contrastante per indurre alla riflessione critica.
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Lo stesso discorso vale per 2073 – Ultima chiamata di Asif Kapadia. Il film, presentato Fuori Concorso alla 81° Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, è uscito dal 16 al 18 giugno distribuito da Filmclub Distribuzione, Minerva Pictures con il patrocinio di Amnesty International Italia. Kapadia è conosciuto principalmente per i documentari biopic su Ayrton Senna (2010), Amy Winehouse (2015 e premiato con l’Oscar nella sua categoria) e Diego Armando Maradona (2019). Sono documentari dove la vita dei suoi protagonisti viene raccontata da loro stessi, in un eterno presente. Rinunciano all’agiografia e alla fissità presente in film simili. Con 2073, però, quello che emerge non è un racconto di cui si conosce già la fine, ma ce ne viene comunque mostrata una. Coniugando la sua esperienza documentaristica con quella di finzione (L’incubo di Johanna Mills, 2006; Mindhunter, 2017), Kapadia realizza un ideale biopic della distopia contemporanea con le conseguenze.

Non si tratta solamente di mostrare in maniera esplicita odio razziale, genocidi, politica, il predominio del consumismo e delle intelligenze artificiali. Ma vuole presentare una probabile reazione a catena che può condizionare tutto, fintanto i danni della Natura, dell’ambiente e della sopravvivenza umana. In 2073 si parla di un cataclisma, definito l’Evento, avvenuto trentasette anni prima. Le conseguenze sono una atmosfera rossastra, colma di polveri sottili. La superficie del mondo è pattugliata dai droni di un ipotetico Grande Fratello. Sono degli occhi sempre aperti a spiare chiunque si muova fra le strade deserte di una, desolante, Nuova San Francisco.
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Questo è il mondo post-apocalittico del 2073 in cui si muove Ghost, una donna che, assieme a molte altre persone, vive nei meandri sotterranei della città. Per non allinearsi, per non farsi catturare, come è avvenuto per sua nonna.
Ghost ogni giorno ripete le stesse azioni: attraversa i sotterranei e sale in superficie per recuperare oggetti una volta superflui ma ora indispensabili, per tutti. Sempre attenta a non farsi trovare. Il suo soprannome non è casuale: si tratta di un fantasma che si muove leggero e indisturbato, di cui non si sa nulla. È il fantasma di un mondo passato. Emerge fuori dalle rovine di un centro commerciale con ancora le merci impilate sugli scaffali, in grandi spazi vuoti. Come, presumibilmente, era la vita che c’era prima. Siamo in un continuo movimento dal basso verso l’alto, dal buio alla luce, dal grande e vuoto al piccolo e pieno.
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Un gioco in cui la contraddizione fa parte dell’esistenza. Il viaggio prosegue fra memoria o dimenticanza, domande e risposte. Come quelle domande che si pone ciclicamente Ghost nei suoi pellegrinaggi. Una in particolare: come è stato possibile l’Evento? Lo sguardo della donna è quello di chi non si capacita. Lo spettatore torna indietro, al nostro passato prossimo. Vediamo, nelle immagini documentaristiche di 2073, un messaggio volutamente frammentario, discontinuo e aggressivo. Che punta il dito a chi ha rinunciato a combattere. Questo è il termine che confida Ghost a un’altra sopravvissuta, leggendo una autobiografia di Malcom X trovata nella pattumiera. Dell’attivista afroamericano ucciso nel 1965 è la frase chiave del film: «Non c’è insegnante migliore delle avversità. Ogni sconfitta, ogni colpo al cuore, ogni perdita contiene il proprio seme». Ghost esprime questo concetto con un gesto muto perché la sua voce la possiamo sentire solo noi.

Ghost è incarnata Samantha Morton. Di lei vediamo, in un rapido frammento, il suo passato filmico. La vediamo come Agatha, uno dei profeti di crimini in Minority Report (2002) di Steven Spielberg. Un film distopico, tratto liberamente da un racconto di Philp K Dick. Un mondo futuristico (il 2054) che Spielberg aveva immaginato grazie a futurologi dal MIT: esperti di difesa, ricerca biomedica, software e realtà virtuale. Per creare qualcosa il più realistico possibile. Un rimando al futuro prossimo, quello che non conosciamo ancora, e che può essere tranquillamente possibile o meno. In quanto, di risposte certe sul domani, ovviamente, non ce ne sono.
