Mentre il mondo guarda alla COP30 di Belém per il futuro del clima, il governo brasiliano prepara nuove esplorazioni petrolifere in Amazzonia.
Il Brasile si prepara a giocare una partita pericolosa: a pochi mesi dall’ospitare la COP30, vertice cruciale delle Nazioni Unite sul clima, il governo Lula dà il via libera a un programma di esplorazioni petrolifere in Amazzonia che coinvolge 172 nuovi blocchi, sparsi in gran parte al largo delle sue coste, ma anche all’interno del delicatissimo bacino amazzonico.
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Secondo un’inchiesta del Guardian, l’area complessiva coperta dall’asta petrolifera supera i 140.000 chilometri quadrati, oltre il doppio della superficie della Scozia. Di questi, 47 blocchi si trovano nel cuore dell’Amazzonia, vicino alla foce del Rio delle Amazzoni: una zona essenziale per la stabilità climatica globale, ma che l’industria petrolifera vede come una nuova promettente frontiera.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Numerose organizzazioni ambientaliste brasiliane e internazionali hanno ribattezzato l’iniziativa “l’asta dell’apocalisse”. A preoccupare sono gli impatti devastanti sulla biodiversità, sulle comunità locali e sull’equilibrio climatico. “Questa asta rappresenta una minaccia concreta e immediata per l’ambiente e i popoli dell’Amazzonia”, ha dichiarato Nicole Figueiredo de Oliveira, direttrice dell’Instituto Internacional Arayara, che ha presentato cinque azioni legali per bloccare il progetto.
Inoltre alcuni blocchi coinvolti nel progetto si sovrappongono a territori indigeni e aree protette, tra cui riserve marine nei pressi di Fernando de Noronha, uno degli ecosistemi marini più preziosi del Brasile.
Un altro aspetto critico è l’impatto potenziale sul clima globale. L’Instituto ClimaInfo ha stimato che se tutti i blocchi messi all’asta entrassero in produzione, si potrebbero generare oltre 11 miliardi di tonnellate di CO₂ equivalente — pari a sei anni di emissioni del settore agroindustriale brasiliano, o al 5% del margine di emissioni ancora disponibile per mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5°C. Solo le esplorazioni nell’Amazzonia potrebbero produrre 4,7 miliardi di tonnellate.
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Le comunità indigene, tra le più colpite, denunciano di non essere state consultate adeguatamente. “Noi popoli indigeni siamo invisibili in questo processo. Ci stanno cancellando”, ha dichiarato Edmilson Oliveira, rappresentante di un coordinamento di leader indigeni che si oppongono all’esplorazione petrolifera sulla costa settentrionale.
Petrobras, la compagnia petrolifera statale, sta cercando da anni di ottenere il permesso per trivellare nel bacino amazzonico. Inoltre il presidente Lula starebbe esercitando pressioni sull’agenzia ambientale Ibama affinché conceda finalmente le autorizzazioni necessarie.
Lucas Louback, attivista dell’organizzazione Nossas, lancia un allarme chiaro: “Stiamo per ospitare un evento globale sul clima e contemporaneamente apriamo le porte all’espansione petrolifera? È una contraddizione lampante. L’Amazzonia è vicina al punto di rottura e andare avanti su questa strada significa accelerare il collasso climatico”.
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La battaglia è tutt’altro che conclusa. A meno che la mobilitazione della società civile, delle comunità indigene e degli scienziati non riesca a fermare il processo, il Brasile rischia di presentarsi alla COP30 come un paese in rotta di collisione con gli stessi impegni climatici che dovrebbe promuovere.
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