The Legend of Ochi – Una fiaba che combatte la superstizione

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The Legend of Ochi – Una fiaba che combatte la superstizione ultima modifica: 2025-05-25T00:01:57+02:00 da Emanuel Trotto
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The Legend of Ochi di Isaiah Saxon è una storia di formazione di una giovane e di una piccola creatura vittima delle superstizioni.

Che cos’è un McGuffin? È un espediente narrativo, un motore dell’intrigo pretestuale che i personaggi di un film o di una qualsiasi opera di narrazione ritengono fondamentale. Nel complesso non è utile, se non in parte, alla comprensione della trama. Maestro di questo artificio nel cinema è stato Alfred Hitchcock, abile ingannatore nel disseminare nel corso delle sue opere questi indizi o queste micce che fanno scoppiare le bombe narrative. Il loro scopo è quello di rivelare, per vie traverse, il vero messaggio del film. Una tecnica che affonda però le sue radici nella narrazione: dalla letteratura, al racconto popolare, fino alle storie per bambini.

In altre parole è qualcosa che c’è sempre stato. Il richiamo all’avventura dell’eroe presentato dallo studioso Christopher Vogler (1949) nelle sue opere. L’eroe è colui che viene costretto ad uscire dagli schemi da una comfort zone più ideale che reale per poter crescere e ampliare il suo sguardo.

The Legend of Ochi poster
Il poster di The Legend of Ochi di Isaiah Saxon.

Non si tratta di un semplice viaggio. Come in tutti i racconti è propedeutico per altro, il procedimento verso un miglioramento di sé o un aggiustamento di una situazione pregressa. In The Legend of Ochi di Isaiah Saxon, prodotto dalla A24 e dai registi Marvel Anthony e Joe Russo (Avengers: Endgame, 2019); distribuito al cinema da I Wonder Pictures a partire dall’8 maggio si parla proprio di questo. Attraverso gli occhi di una ragazzina, Yuri (Helena Zengel), abbandonata dalla madre e con un padre assente, in un’isola fittizia nel mar Nero, Carpathia.

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In questo mondo, completamente avulso dal nostro, nonostante ci siano automobili e tecnologie che rimandano a un passato recente, la popolazione vive di ciò che dà la terra. Accanto ai villaggi delimitati da steccati e città con supermercati dai colori brillanti ma anonimi, si dipanano grandi montagne avvolte dalla nebbia. Queste sono circondate da una foresta cupa e impenetrabile. È il campo dell’ignoto e della fantasia, dove qualsiasi cosa può nascondersi e nel quale è possibile perdersi.

Questo è il territorio degli Ochi, delle scimmie dal naso camuso, dalla pelle bluastra e dal pelo fulvo che tende all’arancione. Degli animali schivi che prediligono la notte per uscire, salvo poi rifugiarsi nel cuore della foresta quando, fra gli alti alberi, iniziano a filtrare i raggi dell’alba. Sono carnivore e si nutrono di quello che riescono a cacciare. O catturando il bestiame dei loro vicini. Questa è la miccia narrativa, il rapporto conflittuale che esiste fra gli esseri umani e queste creature.

Ochi film
Yuri (Helena Zengel) e il piccolo di Ochi in una scena del film.

Per Yuri però è l’inizio di una ricerca verso un nuovo rapporto con le figure genitoriali che si è deteriorato. Fin dall’inizio ci viene presentato. L’unica cosa che la protagonista sa degli Ochi è che le hanno distrutto la sua famiglia. Yuri si trova, assieme ad altri bambini in un gruppo familiare fittizio, a partire dal fratello adottivo Petro. Anche a loro le creature che hanno distrutto le famiglie, portando abbandono, alcolismo e violenza.

Nella violenza trovano un facile rifugio: comandati da Maxim (Willem Dafoe) ogni notte si addentrato nella foresta per cacciare gli Ochi. Questi li ha accolti alla sua corte. Lui fa da comandante e padre putativo. Ogni notte tagliano il buio con i fari delle macchine e con il fuoco. Mettendo in agitazione i primati che fuggono e si stagliano come visioni infernali, in controluce rispetto alle fiamme.  Si rifugiano sugli alberi, costringendo i cacciatori a guardare verso l’alto ma senza possibilità di vedere, sprecando cartucce per catturare il non catturabile.

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La caccia non ha alcuna funzione se non quella di esorcizzare la paura: combattendo in maniera iniziatica ciò che si teme si riesce in teoria a sconfiggerlo. Questi ragazzi si abbigliano per la guerra, dipingendosi la faccia, seguono le tracce delle loro prede in maniera sistematica. Sono in gruppo ma viene insegnato loro che un albero, per crescere, non deve mai appoggiarsi a quello vicino altrimenti sale storto e debole. Si muovono per soddisfare l’ossessione di un uomo, Maxim, che cerca di dare un senso alla sua esistenza, incastrato in una anacronistica armatura. Non è in grado di proteggerlo realmente se non da se stesso. Lui è anche il padre di Yuri.

Willem Dafoe Ochi
Willem Dafoe (a sinistra) e Finn Wolfhard sono Maxim e Petro in un’altra scena del film.

Per lei gli Ochi sono esseri che esistono solo nei racconti. Vivono nell’immaginario orrorifico contadino. Sono la paura verso l’esterno. Temuti quanto basta da confinare chiunque. Le notti sono tetre come i giorni hanno luci da fiaba. Una fiaba che, però, non riesce a penetrare. L’interno della casa di Yuri è buio, con le finestre coperte da tende e l’unica luce è data da un terrario. Un’esistenza dalla quale non è possibile alcuno spiraglio.

Almeno fino a quando, un cucciolo di Ochi viene perduto dalla sua mamma e rimane imprigionato in una trappola. Ed è lì che lo trova Yuri, iniziando così il percorso dell’oscurità alla luce, dall’interno verso l’esterno. La ragazza comincia un dialogo con esso. Fatto di poche parole e versi simili alla melodia di un flauto. The Legend of Ochi è un film che parla di comunicazione che passa attraverso un linguaggio musicale. Quello più elementare delle emozioni che sovrastano ogni barriera. Si tratta di qualcosa che può essere studiato e replicato. Ma non compreso.

È il retaggio di qualcosa che si riteneva perduto, che ci è stato insegnato dalle nostre madri. Il linguaggio segreto fra madri e figli. Quello che avevamo imparato è precluso anche ai più prossimi, come i padri. Questi sono costretti a spogliarsi delle loro armature per immergersi in un percorso tortuoso ma dal quale se ne esce nuovi, rinati. Si vede finalmente la luce. Un momento nel quale è possibile vedere con una prospettiva nuova dalla quale è possibile ricominciare.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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