Dal 14 al 16 aprile è tornato al cinema Blade Runner, capolavoro del cinema distopico e cyberpunk
«Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi. […] E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia.» Un momento iconico del cinema. Una di quelle frasi che sono entrare di diritto nel linguaggio di uso comune. Le ultime parole dell’androide Roy Batty (Rutger Hauer) nel finale di Blade Runner (1982) di Ridley Scott rendono “umano” il suo personaggio, altrimenti “antagonista” della storia. Ribelle e sovvertitore delle convenzioni di un mondo futuristico (adesso si direbbe retro-futuristico) della Los Angeles del 2019.
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Una visione apocalittica in cui il cielo è oscurato da nubi e le tenebre sono illuminate da migliaia di luci immobili, fatta eccezione per le grandi fiamme che sputate fuori dalle torrette. Fiamme che si riflettono su un occhio a tutto schermo. Accompagnate dalla colonna sonora di Vangelis. L’inizio con l’Immagine e la fine con la Parola in Blade Runner rappresentano l’ingresso e l’uscita dalla vertigine di immagini e metafore, neanche troppo velate, dell’esperienza del cinema. E del suo ruolo con l’occhio dello spettatore. Che assimila immagini, le immagazzina una dietro l’altra in ricordi e suggestioni che si mescoleranno in mezzo a tutte le altre quando il film/esistenza finisce.
Tante immagini e tante emozioni in un breve lasso di tempo sono quelle che assimilano e provano i Nexus-6, gli avanzatissimi androidi della Tyrell Corporation. Incredibilmente complessi da diventare più umani degli umani, in uno slogan. E proprio per questa eventualità, pericolosa, sono programmati a un’esistenza infima, di soli quattro anni. La coscienza della propria fine attanaglia gli androidi (o replicanti) a cui il cacciatore di taglie Rick Deckart (Harrison Ford) dà la caccia.
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Ma il tempo è un problema di tutti i personaggi, ognuno di loro a modo diverso. Fra chi di tempo per vivere ne ha poco e chi la Natura ha invecchiato anzitempo, come J.R. Sebastian e la sua sindrome di Matusalemme. Oppure chi, come Rachel (Sean Young), si aggrappa al tempo passato, all’infanzia, per dimostrare disperatamente la sua umanità. Nonostante, un bagliore nei suoi occhi, tradisca a consapevolezza di essere un replicante. Delle rifrazioni rosse che vedono solo strumenti sofisticati come il poligrafo Voight-Kampff. Con un test per i presunti replicanti, anche se si ha la costante sensazione che, in questo mondo, tutti lo siano.

L’unico che pare non toccato da questa illusione della vita è Tyrell, il grande demiurgo. Per lui il tempo sembra che non abbia valore in quanto sa che esso non è intaccabile. La caducità fa parte delle leggi di Natura e per questo non trattabile. Giustificando il suo business con una concezione creazionista, ha giocato con le leggi naturali. Le sue idee ricoprono tutto il creato: non solo esseri umani, ma anche animali. Quelli veri sono quasi del tutto estinti e i soli rimasti sono rarissimi beni di lusso. Come la pecora del romanzo di Philip K. Dick (1928 – 1982) da cui è tratto Blade Runner, Ma gli Androidi sognano pecore elettriche? del 1968.
Il Deckart del romanzo è un personaggio molto più materialista di quello interpretato da Ford. Quest’ultimo è incastrato nella caccia ai Nexus-6 dai suoi ex colleghi poliziotti, in una missione che accetta con relativo fastidio. Quello di Dick ha un desiderio: avere abbastanza soldi per potersi comperare una pecora autentica e non sintetica. In comune i due Deckart hanno il desiderio della fuga.
Scott inoltre si concentra maggiormente sulla dimensione sovrumana degli androidi. Mentre per Dick sono un ambiguo concetto di umanità mutevole e ingannatrice che esprimono però i valori di una comunità perseguitata e senza diritti. Nella sua narrativa in Dick c’è sempre un conflitto fra quello che c’è e quello che c’era. Quest’ultimo può essere in un passato remoto, un mondo magari più arretrato ma più semplice di quello distopico in cui si vive. In quest’ultimo i confini non ci sono. Tutto è solo un accumulo di spuntoni su cui svettano gigantesche costruzioni babeliche. Strutture immani dove perdersi in una moltitudine di simboli, di ideogrammi, di schermi ovunque.

Un sovraffollamento dello sguardo dalle reclame ai viaggi paradisiaci verso le colonie extra mondo che non vediamo mai. Mantenere il controllo con una promessa di qualcosa del quale dubitiamo persino l’esistenza. Il potere e la suggestione sono alcuni dei temi che Scott porta avanti nella sua filmografia. Oltre che la ricerca dell’umanità. La sua corruzione che può venire dalla scienza, dalla religione (Le crociate, 2005) o da sentimenti altrimenti nobili come il desiderio di affermazione (Il gladiatore, 2000). I replicanti inseguono disperatamente la loro umanità, egoisticamente, uccidendo o circuendo i più deboli. Ciò li rende cinicamente umani. E risultano più autentici in un mondo sintetico.
Blade Runner è stato riproposto da Lucky Red nuovamente al cinema restaurato in 4K dal 14 al 16 aprile nella sua versione Final Cut del 2007. È più vicina alla concezione del suo regista. Più nichilista: nella versione cinematografica del 1982 le tenebre e le piogge acide di Los Angeles sfumano in un lieto fine imposto dalla produzione. Con sequenze aeree in un cielo terso fra alberi e fiumi. Immagini prese direttamente da scarti di Shining (1980) di Stanley Kubrick e una predominanza della Parola, la voice over di Deckart come in un classico noir. Un film mutevole che ha visto molte vite (cinque in totale) accomunate da una fuga verso un domani idilliaco. Ma può essere l’ennesimo sogno elettrico.
