Wolf Man – Uomo e Natura nella riscrittura del classico dell’horror

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Wolf Man – Uomo e Natura nella riscrittura del classico dell’horror ultima modifica: 2025-02-09T00:01:29+01:00 da Emanuel Trotto
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Wolf Man, di Leigh Whannell, uscito nelle sale il 16 gennaio,   riscrive in chiave contemporanea il celebre mostro classico

wolf man film
Wolf Man di Leigh Whannell, una scena del film

Immaginiamo di essere nel Medioevo. In una capanna isolata da tutto e da tutti in mezzo a una brughiera o sperduta nella campagna. Cala il tramonto e la famiglia si chiude in casa per il tepore della notte e riposarsi delle fatiche del giorno. E per proteggersi in quanto fuori non si vede nulla. Là c’è l’ignoto. È buio pesto. La poca luce può provenire dalla Luna. Fuori si sentono solo i rumori della foresta e delle creature notturne. Improvvisamente l’atmosfera viene squarciata da un ululato. Un branco di lupi di passaggio? Eppure quell’ululato ha qualcosa di straziante, di umano si potrebbe dire.

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Questa era la sensazione con la quale, nel corso dei secoli successivi, si è sviluppata l’insensata paura atavica nei confronti dei lupi. E dove è cresciuta maggiormente la credenza sulla licantropia. Ossia di umani condannati alla trasformazione nelle notti di Luna piena in creature bestiali e assetate di sangue. Il licantropo o uomo lupo è l’incarnazione della necessità di cacciare, che sfugge a qualsiasi buon senso o civiltà.

Wolf Man poster
Wolf Man di Leigh Whannell, il poster.

Una creatura che racchiude in sé le primordiali credenze sciamaniche. Egli ha attraversato l’antichità con il dio Anubi nell’antico Egitto. O le mutazioni di forma di Zeus e il mito di Licaone, il re dell’Arcadia divenuto simbolo di empietà, nell’antica Grecia. Il licantropo diviene una creatura necrofila per le popolazioni galliche sottomesse ai Romani. Fino ad arrivare al Medioevo, alla sua forma malvagia. Servo del demonio, amico delle streghe e partecipante dei sabba, oggetto di inquisizione, persecuzione e isteria collettiva.

Tuttavia, fin dall’antichità, parallelamente alle credenze popolari, la medicina riteneva la licantropia più una condizione psichica che fisica come descrive chi ne è affetto Claudio Galeno (129 – 216 d.C.). Una definizione che è presente ancora nella attuale letteratura medica.

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Cinematograficamente si è da sempre prediletto la trasformazione fisica come un effetto di una maledizione orripilante. L’uomo lupo è così entrato nell’immaginario collettivo. Fin dalle sue prime apparizioni nel cinema muto (The Werewolf, 1913 di Henry MacRae) diviene, un’icona dei Mostri della Universal con L’uomo lupo di George Waggner (1941) assieme al Mostro di Frankenstein, la Mummia, Dracula o l’Uomo Invisibile. Fra le varie incarnazioni si è cercato più volte di rivisitare la sua figura: Un lupo mannaro americano a Londra (1981, John Landis) o L’ulutato (1981 di Joe Dante).

L'uomo lupo 1941
Lon Chaney Jr. è Larry Talbot, alias l’Uomo Lupo ne L’uomo lupo del 1941.

Non solo. Negli ultimi anni si è cercato di fare un lavoro di riscrittura dei mostri “classici” da parte della Universal per il pubblico moderno. Il più delle volte, in maniera fallimentare. Ultima delle quali tentando di creare un universo condiviso simile a quello creato per i cinecomic, con il Dark Universe. Esperimento che si era interrotto col flop del primo film, nel 2017 (La mummia di Alex Kurtzman).

In tempi più recenti gli esperimenti più interessanti li ha compiuti Leigh Whannell. Dapprima sceneggiatore per James Wan, si è poi dedicato alla regia, con lavori che mescolano l’horror con la fantascienza. In particolare con L’uomo invisibile (2020) ha riscritto la figura dello scienziato creato da H.G. Welles nel 1897. Whannell conserva la chiave fantascientifica ma aggiornandola con tematiche quali lo stalking e la violenza di genere. Un lavoro di revisione simile lo ha fatto anche con il suo ultimo film, Wolf Man, uscito nelle nostre sale il 16 gennaio.

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Prodotto dalla Blumhouse Production, casa specializzata dal 2006 nella produzione e distribuzione di horror a basso costo, Wolf Man ambienta la storia negli Stati Uniti di oggi. La licantropia è la conseguenza di un misterioso morbo che porta ad avere delle sembianze “canine” chi ne viene colpito. La leggenda viene riscritta per l’uomo contemporaneo che teme in quanto tangibile. La creatura è nella forma di un escursionista scomparso nel 1995 fra le montagne dell’Oregon.  Probabilmente colpito dal misterioso morbo conosciuto dai nativi come “faccia di lupo”.

Wolf Man
I protagonisti di Wolf Man , Charlotte (Julia Garner) e Blake (Christopher Abbott) in una scena del film.

Un cacciatore sta insegnando a suo figlio a muoversi nei boschi. Un ambiente che regala viste mozzafiato. Ma che sa anche colpirti all’occorrenza se abbassi la guardia. Questo è quello che il padre cerca di spiegare al protagonista, Blake. Durante una battuta di caccia il ragazzo si allontana con la scusa di ottenere una visuale migliore col fucile. Attraverso il suo obiettivo vede una belva eretta, umanoide, fra gli alberi per pochi istanti. Poi la fuga in una capanna di avvistamento. La belva che prova a raggiungerli invano. Una creatura che non vediamo quasi mai direttamente. Per far riemergere la paura dell’uomo contemporaneo oramai scettico e sensibile alla contraffazione.

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Così come scettica e materialista è la moglie di Blake (Christopher Abbott), Charlotte (Julia Garner) trent’anni dopo. Una stacanovista di città che viene trascinata dal marito con la loro bimba a prendere possesso della casa paterna di Blake immersa nel bosco. Una casa vuota in quanto il genitore è scomparso nella caccia alla misteriosa bestia. Per proteggere la sua famiglia. Toccherà anche a Blake fare altrettanto. Anche se il nemico può nascondersi non solo nella tenebrosa foresta, ma anche nelle tenebre del proprio retaggio. Potrebbe essere una maledizione genetica.

La Natura e la Civiltà si scontrano su un canovaccio molto semplice. Mostrando la loro crescente incomunicabilità quanto una inizia a prendere piede sull’altra.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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