Il nostro saluto a David Lynch, il regista famoso per Twin Peaks e per cui la Natura assume una dimensione quasi mistica
Il 15 gennaio è morto David Lynch. I suoi film raccontano l’oscurità dell’inconscio. Concedendosi la fiaba con “Una storia vera“.

Se c’è una cosa che fa veramente raggelare il sangue, quella è l’inconscio. Perché dentro si aprono dei cassetti che non vorremmo mai che si aprissero. Perché il loro contenuto è ignoto persino a noi. Con l’inconscio si scava nel buio più profondo della propria anima e del proprio spirito. Quello di smuoverlo è un compito arduo che, solo gli artisti veri sanno ottenere. Mostrare il vero orrore di quello che siamo dentro nonostante la nostra faccia pulita.
Questo è quello che ha fatto David Lynch con la sua opera. Un percorso che è partito dalle arti figurative, dalla pittura, alla musica, alla performance artistica, alla meditazione, fino ad arrivare al cinema. La sua scomparsa a 78 anni, resa nota qualche giorno fa ha gettato lo scompiglio. Una lunga malattia segnata dall’enfisema polmonare ha interrotto il suo percorso umano e artistico. Una strada che è sempre stata votata a una incompletezza necessaria. Il materiale su cui ha sempre lavorato è un flusso senza fine, nella quale si possono aggiungere nuovi pezzi, nuovi episodi, nuovi traumi.
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Il cinema di David Lynch è uno di quelli che causa veramente paura alla visione. Proprio perché tocca delle pulsioni che difficilmente riusciamo a nascondere. La sua ricerca puntava non tanto a risolvere i mali, quanto a mostrarli, per renderci maggiormente consapevoli. Ha da sempre usato la psicanalisi come un ideale veicolo per il racconto più che uno strumento per affrontare i traumi. Lynch nel cinema, giocava con i generi: dal biopic di The Elephant Man (1980), al road movie di Cuore selvaggio (1990) o al noir di Strade perdute (1997). La maggior parte dei suoi film hanno smontato anche il way of life della provincia americana puntato tutto sull’apparenza e la perfezione.
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Emblematico in questo senso è la scena di apertura di Velluto blu (1986). Siamo in un perfetto giardino verde di una tipica casa a schiera americana. Un uomo di mezza età sta innaffiando il prato in compagnia del suo cane. Tutto è al suo posto: lui è cordiale, il cane grazioso, il prato verde, la staccionata bianca e dei bei fiori rossi. L’uomo ha un malore e si accascia a terra. L’acqua della pompa che usava per innaffiare è ancora attiva. Mentre il getto d’acqua diventa un gioco per il cane, la macchina da presa scende sotto il prato. Ci viene mostrare la terra, gli insetti e i vermi che scricchiolano e strisciano fra frammenti organici putrefatti.
Quello che è perfetto non lo è mai. Neppure i gufi sono quelli che sembrano, citando Twin Peaks (1990 – 1991 – 2017). I gufi nella concezione classica sono stati alternativamente, saggi, portatori di malaugurio o legati alla stregoneria. Qui sono degli osservatori, delle spie o delle incarnazioni degli abitanti della Loggia Nera. Si tratta di un luogo metafisico il cui ingresso si trova nei boschi che circondano la città eponima. La Loggia affonda le sue radici nella cultura dei Nativi Americani. A essa si accede da una pozza simile a olio per motori (o petrolio) circondata da dodici sicomori, simbolo di immortalità. Un luogo in cui il legame con la Terra è connesso con lo spiritismo, lo sciamanesimo e la trasmutazione. In questo posto è possibile accedervi tramite la paura, uno dei sentimenti primordiali che ci hanno da sempre accompagnato.

Il bosco rigoglioso e pieno di vita, con il suo aspetto impenetrabile, racchiude tutti i misteri che si celano dietro la popolazione di Twin Peaks. Per esteso raffigura la fitta rete di misteri dell’animo umano. In esso si tocca la costante tensione che esiste fra ciò che è reale e ciò che non lo è. In altre parole, la Natura per Lynch assume una dimensione quasi mistica.
Il mondo che ha rappresentato nei suoi lavori è marcio. Il contemporaneo è perduto. Il suo sguardo è rivolto altrove, al mondo di Oz, o al mondo della Frontiera. In esso, a discapito di una vita più dura, forse i rapporti con quello che ci circonda erano meno conflittuali.
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In Una storia vera (1999) cerca di raccontare proprio questo: la ricerca di un rapporto con il mondo che si è andato perso. Con la caparbietà di perseguire un fine secondo le proprie idee. Ispirato a una vicenda avvenuta in Iowa nel 1994, il film racconta di Alvin (Richard Fansworth), un settantenne con gli acciacchi dell’età. Ha sempre un grande cappello in testa, e una scatola di sigari infilata nella tasca della sua camicia a quadri. Le sue giornate, assieme alla figlia Rose (Sissy Spacek), si ripetono tutte uguali, ma serene. Lui ripara il suo trattorino rasaerba, lei costruisce casette per gli uccelli. Quando arriva il temporale lo guardano al buio in cucina. Non basta altro a loro. Una sera Alvin riceve una telefonata: suo fratello Lyle (Harry Dean Stanton), con cui non parla da dieci anni ha avuto un infarto.

Alvin decide di andarlo a trovare, nonostante viva in Winsconsin a seicento chilometri di distanza. Lo fa viaggiando a bordo del suo trattorino (non ha la patente e non ci vede bene). Con la lentezza di un mandriano di altri tempi, intraprende il suo viaggio in un mondo rurale, semplice. I prati e i campi attraversati dalle mietitrebbie industriali sono tagliati dalle grandi superstrade.
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Il viaggio di Alvin è quello del ricordo della gioventù. Come un momento appartenuto a un mondo lontano. Per il vecchio protagonista e David Lynch è anni luce dall’America cupa e contraddittoria di oggi, piena di fantasmi dell’inconscio collettivo. Lontanissima dal futuro feudale della sua trasposizione di Dune (1984). Quello che Lynch ha raccontato in Una storia vera è un mondo che forse non esiste, ma nel quale vogliamo vivere. Ci vogliamo perdere in esso, come quando guardiamo le stelle in un cielo terso.
