Il 19 dicembre 2024 è uscito in sala Mufasa – Il Re Leone, prequel del film del 2019 con il giovane Mufasa e Scar come protagonisti
Il Re Leone di Roger Allers & Rob Minkoff (1994) è stato, alla sua uscita, un film traumatico. Per chi scrive, perlomeno lo è stato. Era il primo film, in assoluto visto al cinema. Dopo la prima metà i pianti e le urla erano così forti da dover uscire dalla sala. Un trauma che è andato avanti per anni. La videocassetta rimane nascosta nell’angolo più buio e lontano dello scaffale della televisione. Da allora non è stato facile approcciarsi a questo titolo. L’impatto è stato talmente forte che solo in età adulta è stato possibile venirne a capo. Per quale motivo?
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La morte, o meglio la caduta, di Mufasa nella mandria di gnu impazziti, è una scena che è rimasta fissa nella retina e nella memoria. Una immagine che è difficile metabolizzare ancora adesso. Probabilmente perché ha lo stesso impatto emotivo dell’uccisione della mamma in Bambi (1942). Un atto di una violenza visiva ed emotiva tale, quest’ultima, che ha portato Quentin Tarantino a dichiararsi «scioccato più di qualunque altra cosa avessi visto al cinema».
Sono due sequenze che hanno colpito fortemente generazioni di spettatori. Esse toccano uno dei dolori più grandi dell’esistenza di una persona: la perdita dei propri genitori. Coloro la cui presenza diamo e daremo sempre per scontato. Quell’amore incondizionato che perdiamo da un momento all’altro. Dobbiamo fare i conti con il dolore, con il senso di vuoto che la loro dipartita comporta. Bisogna saperlo affrontare e conviverci, nonostante tutto. Questo è il Cerchio della Vita. Mufasa o Rafiki direbbero così.
Un trauma che deve essere prima o poi affrontato e vinto. Per molti spettatori adulti probabilmente lo è stato quando, nel 2019 Jon Favreau (Iron Man, 2008) dirige il secondo rifacimento fotorealistico di un Classico Disney dopo Il libro della giungla (2016): Il Re Leone per l’appunto.
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Nel precedente film lo spettatore era preso per mano dall’unico personaggio umano (e reale) della pellicola, Mowgli. Ora si decide di puntare unicamente sulla presenza di soli animali non antropomorfizzati per catturare l’empatia del pubblico. Nulla di diverso dall’originale del 1994, ma una sfida non di certo facile. Il fotorealismo non permette una gamma di emozioni ampia. Specie se applicato su personaggi non umani. Quindi la sola strada da seguire era quella del prodotto originale, riproposto quasi alla lettera. Ciò ha permesso di avvicinare un nuovo pubblico di spettatori e uno zoccolo duro di chi, da bambino, lo ha amato. E il botteghino ha confermato.
Per anni si è discusso di un possibile prequel in cui si andava ad indagare sulle origini di Mufasa e sulla rivalità unidirezionale del fratello Scar. Da queste premesse è uscito in sala, il 19 dicembre dello scorso anno, per la regia di Barry Jenkins, Mufasa – Il Re Leone. In esso si propone di raccontare una storia d’origine che risulti rispettosa del prodotto originale, appassionando ugualmente gli spettatori.
Di sequel e spin off del film del 1994 ce ne sono diversi, tutti destinati all’home video. Da essi, tuttavia, la nuova sceneggiatura non tiene conto se non per il personaggio di Kiara, la figlia di Simba e Nala. La vediamo, al principio del film, lasciata dai genitori alle cure di Rafiki, Timon e Pumbaa. Per passare il tempo e mitigare il disappunto della piccola, Rafiki le racconta la storia di suo nonno, Mufasa. Anche lui, da cucciolo, viveva felice con i suoi genitori. Ma una piena lo separa dalla sua famiglia.
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Trasportato dalla corrente, Mufasa si trova in un territorio nuovo, da solo. Sulla sua strada incontrerà un altro leoncino suo coetaneo, Taka, con il quale lega immediatamente. Il primo ha bisogno di trovare un posto che possa chiamare casa, il secondo ha sempre desiderato un fratello. I due crescono in armonia fino a quando, nel loro territorio, arrivano dei leoni bianchi reietti comandati da Kiros. I due fratelli sono costretti, per salvare il resto del branco, ad allontanarsi in cerca di un nuovo territorio, le Terre del Branco, un luogo mitico e paradisiaco.
Tanto è forte e determinato Mufasa, quanto Taka risulta assolutamente inadeguato a vivere da solo. Un personaggio in cerca del suo spazio di luce. Dentro di sé coltiva un dolore e un odio dovute alla sua timidezza e debolezza. Qualcosa che lo porterà, sempre di più ad oscurare il suo carattere fino a trasformarlo letteralmente. Dietro la cicatrice da cui prenderà il suo soprannome c’è molto di più di una scarnificazione.
In Mufasa questo traspare bene dagli sguardi e dalle espressioni dei suoi personaggi. Barry Jenkins, premio Oscar nel 2016 per Moonlight e autore del melodramma Se la strada potesse parlare (2018) affronta con Mufasa una storia apparentemente lontana dai suoi binari. Tuttavia non lo è, sia a livello contenutistico che stilistico. Il suo cinema lavora sui rapporti che segnano le vite e i volti. E sono proprio questi ultimi a essere il suo marchio di fabbrica. Dei lunghi primi piani ad indagate la minima inflessione o cambiamento. E Mufasa non fa eccezione: perfeziona ulteriormente la tecnica del film di Favreau. I primi piani, a volte si allontanano dal totale realismo per privilegiare delle microespressioni plausibili. Così facendo ci parlano con totale genuinità. Rendendo questi animali, nonostante tutto, umani e in grado di insegnarci qualcosa.