Le emissioni di metano delle grandi aziende di carne e latticini sono comparabili a quelle delle aziende fossili, il report di Greenpeace
Nel breve periodo il metano è un gas ad effetto serra perfino più potente dell’anidride carbonica. Un aspetto da tenere in debita considerazione nel tempo della crisi climatica, che riguarda da vicino il settore della produzione di carne e di altri derivati animali. Lo conferma un recente studio realizzato da Greenpeace Nordic, in base al quale 29 grandi aziende mondiali produttrici di carne e latticini risultano emettere quantitativi di questo nocivo gas serra pari a quelli delle 100 maggiori aziende del settore dei combustibili fossili.
L’organizzazione ambientalista invoca dunque l’esigenza di porre un freno all’emergenza climatica ed al riscaldamento globale, bloccando urgentemente l’aumento delle emissioni da parte di questo comparto produttivo, mediante anche una giusta transizione dall’attuale modello di produzione zootecnica industriale, responsabile della sovrapproduzione e del consumo eccessivo di carne e latticini.
Il riscaldamento da evitare
Su un punto gli scienziati sono concordi: per prevenire gli effetti più gravi della crisi climatica è necessario un rapido abbattimento delle emissioni di metano, un gas ad effetto serra 80 volte più potente dell’anidride carbonica nell’arco di 20 anni dall’emissione.
Emissioni di metano, carne e latticini i principali responsabili
Altrettanto indubitabile è che la zootecnia sia la più grande fonte di metano di origine antropica, ma nonostante tale evidenza lo strumento lanciato nel 2021 dalla COP 26, il Global Methane Pledge (GMP), si è limitato alla richiesta di ridurre le emissioni di questo gas serra nel settore dei combustibili fossili, trascurando le grandi aziende industriali di carne e latticini.
“Modellando lo scenario business as usual della FAO per il futuro dell’alimentazione, i nostri risultati mostrano che il riscaldamento aggiuntivo di 0,32°C entro il 2050 (rispetto ai livelli del 2015) deriverebbe dal solo settore della carne e dei latticini”, scrivono gli autori del report.
Analizzando le emissioni di gas serra derivate dalle aziende di questo comparto, lo studio di Greenpeace Nordic evidenzia pure che il metano è responsabile di oltre tre quarti del riscaldamento dovuto a tal settore. Un’azione tempestiva risulta dunque particolarmente urgente, perché altrimenti rischieremmo di aumentare le temperature medie globali di altri 0,16°C già nel 2030, a causa della sola espansione del settore di carne e latticini.
Si tratta di piccoli numeri solo all’apparenza. Per la comunità scientifica, infatti, ogni 0,1°C di riscaldamento evitato comporterebbe lo scioglimento di circa il 2% in meno di massa di ghiaccio dei ghiacciai a livello globale (migliorando la disponibilità di acqua e riducendo l’innalzamento del livello del mare e quindi il rischio di inondazioni per milioni di persone nelle aree costiere), mentre ogni 0,3°C potrebbe ridurre l’esposizione al caldo estremo per ben 410 milioni di persone.
Fortunatamente c’è ancora speranza. Lo studio include una proiezione basata sulla riduzione della produzione e del consumo di carne e latticini nei Paesi a medio ed alto reddito, in linea con le raccomandazioni di EAT-Lancet Planetary Health. La rapida ed equa transizione del sistema alimentare verso una dieta prevalentemente vegetale condurrebbe ad un riscaldamento inferiore di 0,12°C entro il 2050 rispetto allo status quo, ponendo un argine al global warming. Secondo lo studio, ciò equivarrebbe ad una riduzione del 37% del riscaldamento dovuto all’allevamento entro la metà del secolo. Una rapida ed efficace mitigazione del cambiamento climatico sarebbe dunque ottenibile con dei semplici cambiamenti nella dieta e soprattutto con l’adozione di un approccio più equo ed ecologico nel settore carne e latticini.
“Per tanto tempo abbiamo osservato la crescita senza freni delle grandi aziende di carne e latticini, come se il settore fosse in qualche modo esente da responsabilità verso la crisi climatica, ma non è affatto così. Siamo spesso stati messi di fronte a una realtà nella quale sono gli allevatori o i consumatori a dover cambiare, mentre queste aziende decidono cosa gli agricoltori devono produrre, quanto devono essere pagati e cosa noi dobbiamo mangiare. Ora però sappiamo che un cambiamento del sistema è possibile”, afferma Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.
Le emissioni delle grandi aziende
Gli esiti dello studio confermano che le cinque maggiori aziende produttrici di carne e latticini (JBS, Marfrig, Minerva, Cargill e Dairy Farmers of America) emettono globalmente più metano delle cinque Big Oil, ovvero BP, Shell, ExxonMobil, TotalEnergies e Chevron.
Da un grafico pubblicato nel report si ricava che “le emissioni di metano stimate dei 3 principali trasformatori di prodotti lattiero-caseari – Dairy Farmers of America, la francese Lactalis e la neozelandese Fonterra – messe insieme, supererebbero quelle di alcune delle più grandi compagnie di combustibili fossili come ExxonMobil”.
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“JBS, il più grande produttore di carne al mondo, è già noto per i suoi pessimi risultati in materia di deforestazione. Secondo le nostre stime, è anche responsabile di emissioni di metano maggiori di ExxonMobil e Shell messe insieme”, ribadisce il report.
Si tratta inoltre di un settore che pecca di trasparenza, poiché molte aziende produttrici di carne e latticini non pubblicano i dati relativi alla produzione, né trasmettono quelli relativi alle loro emissioni di CO2 e metano, non sottoponendoli neppure a verifica indipendente. Parte del rapporto esamina i piani d’azione per il clima di 10 aziende, rilevando il loro insufficiente impegno per le politiche di mitigazione. “Il problema è sistemico in tutte le aree geografiche. I piani climatici non hanno parametri e obiettivi coerenti e armonizzati tra le aziende e i dati autodichiarati mancano di una verifica indipendente. Ciò rende nella pratica impossibile confrontare le aziende e i loro progressi verso una reale azione per il clima”.
Tra le 10 aziende è presente pure la holding italiana Cremonini, che tramite la controllata Inalca è uno dei maggiori player europei per la produzione di carne bovina e leader nel settore in Italia. Nel 2022 questo gruppo ha commercializzato complessivamente quasi 480 mila tonnellate di carne. “Di queste, oltre 200 mila tonnellate di carne bovina sono state macellate direttamente da Inalca nei propri stabilimenti, mentre oltre 230 mila tonnellate di carne bovina e 40 mila tonnellate di carne suina sono state acquistate presso terzi, per un totale di emissioni stimate pari a 0,32 megatonnellate di metano”, specifica Greenpeace Italia.
Nel bilancio di sostenibilità 2022 di Inalca il rapporto rileva evidenti lacune nell’impegno climatico: non sono ad esempio indicati impegni specifici, né chiariti obiettivi e piani dettagliati per la limitazione delle emissioni.
In un capitolo specifico del rapporto si mostra il generale scarso impegno di queste aziende nella transizione ed il loro tentativo sempre più massiccio, in complicità con le lobby collegate, di ostacolare il passaggio a diete sostenibili e prevalentemente vegetali. Il tutto sia con strategie mirate di greenwashing, sia con la proposta di soluzioni per abbattere le emissioni, giudicate parziali, non dimostrate o comunque insufficienti. In questo ambito il rapporto cita, ad esempio, il biogas, gli additivi per mangimi e l’allevamento selettivo, tutte scorciatoie considerate inefficienti.
Le richieste
“I governi devono guidare gli investimenti e le politiche per avviare il cambiamento. Abbandonando la sovrapproduzione e il consumo eccessivo di carne e latticini, sostenendo gli agricoltori e i lavoratori del settore in una giusta transizione. E così facendo, salvando milioni di vite limitando il riscaldamento globale”, sostiene Ferrario.
Greenpeace chiede ai decisori politici di stabilire norme vincolanti per imporre una rendicontazione delle emissioni totali da parte delle aziende di carne e latticini e di tutte le loro filiere, che sia armonizzata e sottoposta ad un sistema di verifica indipendente. Servirebbe inoltre l’aggiornamento o introduzione di una legislazione vincolante per la riduzione delle emissioni agricole (metano compreso) “con obiettivi concreti che riducano il numero di animali allevati, escludendo offset e soluzioni tecnologiche a breve termine non adeguatamente dimostrate”.
Greenpeace chiede inoltre di adottare un piano con tempi definiti per trasferire i fondi pubblici dal sistema degli allevamenti intensivi su larga scala all’agroecologia, introducendo pure politiche tese ad eliminare l’eccessivo consumo di carne e latticini ed a guidare verso diete più sane e sostenibili.
Oltre gli allevamenti intensivi, la proposta di legge presentata dalle associazioni animaliste
Rivolgendosi alle aziende, Greenpeace reclama le necessità di: comunicare la portata complessiva delle emissioni per tutta la filiera di approvvigionamento; ridurre il numero di capi allevati per abbattere le emissioni di gas serra; fermare l’espansione nei sistemi naturali e garantire approvvigionamenti di prodotti e materie prime non provenienti da aree ecologicamente sensibili od a rischio di violazione dei diritti umani.
La transizione non può più attendere.
[Credits foto: Greenpeace, greenpeace.org]