La cooling poverty è una nuova e rilevante forma di povertà connessa al riscaldamento globale, oggetto di studio
L’epoca della crisi climatica, che stiamo vivendo e subendo, è all’origine di nuove e preoccupanti forme di disuguaglianza. Con il termine cooling poverty si indica una rilevante dimensione di povertà sempre più evidente in un mondo segnato dal riscaldamento globale.
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A chiarire questo concetto ci ha pensato uno studio pubblicato su Nature Sustainibility, intitolato “Understanding systemic cooling poverty”, a cui hanno lavorato i ricercatori Antonella Mazzone, Enrica De Cian, Giacomo Falchetta, Anant Jani, Malcom Mistry e Radhika Kosla, appartenenti alle Università di Oxford e Ca’ Foscari Venezia, alla Fondazione CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), all’RFF-CMCC European Institute on Economics and the Environment ed alla London School of Hygiene & Tropical Medicine.
Lo studio ed i commenti
Prima di tutto stiamo vivendo un paradosso. Le persone più povere e vulnerabili sono quelle che meno contribuiscono al riscaldamento globale pur subendone le conseguenze più gravi a causa della loro limitata capacità di adattamento.
“Comprendere le esigenze dei più svantaggiati è fondamentale per sviluppare strategie eque e adeguate per adattarsi al caldo estremo e mantenersi al fresco”, si legge nell’abstract dello studio.
Questa importante pubblicazione evidenzia la natura multidimensionale di questo oggetto di ricerca e fa riferimento al concetto della cooling poverty sistemica.
“La cooling poverty (povertà di raffrescamento) si può definire sistemica quando si sviluppa in contesti in cui organizzazioni, famiglie e individui sono esposti agli effetti dannosi del crescente stress da calore, principalmente a causa di infrastrutture inadeguate. Tali infrastrutture comprendono beni fisici (come soluzioni di riqualificazione energetica passiva, catene del freddo o dispositivi tecnologici personali per il raffrescamento), sistemi sociali (come reti di supporto e infrastrutture sociali) e risorse immateriali (come la conoscenza, che può permettere di adattarsi intuitivamente agli effetti combinati di calore e umidità)”.
Nella cooling poverty sistemica interagiscono tra di loro cinque dimensioni fondamentali, così indicate dai ricercatori: clima; comfort termico di infrastrutture e beni; disuguaglianza sociale e termica; salute; istruzione e standard lavorativi.
Nel quadro per definire la povertà sistemica da raffreddamento tali cinque dimensioni sono state ulteriormente suddivise in 15 sottodimensioni o variabili. Più in generale, il quadro si basa sull’Indice di povertà multidimensionale (MPI) sviluppato dalla Oxford Poverty and Human Development Initiative (OPHI), ponendo al centro le dimensioni del benessere umano “salute” e “istruzione”.
“La definizione proposta si discosta dai concetti esistenti di povertà energetica e fuel poverty. La cooling poverty sistemica evidenzia il ruolo delle infrastrutture di raffreddamento passivo (utilizzando acqua, superfici verdi e bianche), dei materiali da costruzione per un’adeguata protezione termica esterna e interna e delle infrastrutture sociali. La sua portata sistemica considera anche lo stato dell’offerta di raffreddamento disponibile per il lavoro all’aperto, l’istruzione, la salute e la refrigerazione. In questo senso, lo spazio e il luogo giocano un ruolo chiave in questa concettualizzazione della povertà di raffrescamento. Va oltre l’energia e abbraccia un’analisi multidimensionale e multilivello di infrastrutture, spazi e corpi”, spiega la prima autrice dello studio Antonella Mazzone, ricercatrice affiliata all’Università di Oxford.
Il concetto di cooling poverty sistemica ha inoltre molte implicazioni politiche, “in quanto evidenzia l’importanza di affrontare i rischi legati all’esposizione al calore con un coordinamento efficace tra diversi settori, come l’edilizia abitativa, la sanità, l’alimentazione e l’agricoltura, i trasporti”, commenta la co-autrice dello studio Enrica De Cian, professoressa all’Università Ca’ Foscari Venezia e ricercatrice senior presso il CMCC.
Il nuovo indice in questione può produrre inoltre effetti positivi, aiutando i governi a programmare gli interventi di raffreddamento più urgenti e necessari in modo tempestivo ed etico, senza trascurare i relativi compromessi.
“La prossima sfida sarà quella di rendere pienamente operativo il quadro proposto per il raffreddamento in diversi contesti e su diverse scale, ed è questa la direzione che desideriamo perseguire nel futuro lavoro di ricerca”, chiarisce Giacomo Falchetta, ricercatore di CMCC@Ca’Foscari che ha contribuito allo studio.
L’originalità dell’indice
In seguito alla crisi petrolifera degli anni Settanta furono sviluppati i concetti di fuel poverty (povertà di carburante) ed energy poverty (povertà energetica), in riferimento a quelle famiglie di ogni ceto sociale che non erano in grado di riscaldare efficacemente le loro abitazioni nel periodo invernale.
Da qui hanno preso le mosse i vari indicatori che hanno cercato di misurare il disagio legato all’assenza di comfort termico ed alla deprivazione energetica nei vari Paesi. Il concetto di summer energy poverty risale invece ad uno studio spagnolo realizzato nel 2019, allo scopo di definire la deprivazione di sistemi di raffrescamento nel periodo estivo per le famiglie abitanti nell’emisfero settentrionale.
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“Il problema di questo e degli altri approcci sviluppati successivamente in questo ambito di ricerca riguarda la loro tendenza a concentrarsi quasi solamente sulle condizioni socioeconomiche delle famiglie e sul possesso di sistemi di aria condizionata, tralasciando di considerare i molti altri fattori, materiali e immateriali, che consentono ciò che definiamo rinfrescamento passivo (passive cooling)”, ha spiegato Mazzone in un’intervista rilasciata a Federica D’Auria per “Il Bo Live, il giornale dell’Università di Padova”.
“Abbiamo approfondito, in particolare, quelle disuguaglianze strutturali che possono acuire il disagio termico. Tali disuguaglianze dipendono da un insieme di variabili molto complesso che include, ad esempio, anche la dimensione delle conoscenze, dei comportamenti individuali e delle caratteristiche ambientali. Abbiamo considerato, in particolare cinque dimensioni della povertà di raffreddamento: clima, infrastrutture, reti sociali, salute e conoscenza. Ognuna di esse è caratterizzata da un insieme di variabili, alcune delle quali sono cause della povertà da raffreddamento, mentre altre sono conseguenze e che vanno perciò considerate in maniera unitaria. Ad esempio, per valutare la gravità della cooling poverty in una determinata regione non è sufficiente considerare la quantità di persone che possono permettersi l’aria condizionata, ma bisogna incrociare questa stima con i dati climatici, con la presenza di infrastrutture passive e con l’incidenza di alcune malattie”, ha proseguito Mazzone nella stessa intervista.
Per quanto riguarda la dimensione del clima, ad esempio, non basta prendere in considerazione le temperature medie ma anche il tasso di umidità, che quando è molto elevato aumenta il rischio di mortalità, specialmente per le persone più fragili.
Analogamente, in tema di comfort termico, i ricercatori invitano a valutare non solo la presenza di sistemi di raffrescamento nelle abitazioni ma anche l’assetto urbanistico, il livello di efficientamento energetico degli edifici, l’accesso all’acqua potabile, le condizioni igieniche ed il possesso di indumenti traspiranti in fibre naturali. La presenza di aree verdi o blu o di altre ombreggiate e ventilate, ad esempio, evita le isole di calore urbano, mentre i tessuti naturali favoriscono la termoregolazione a differenza di quelli sintetici, ben più diffusi.
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Se poi le disuguaglianze sociali ed i modelli di segregazione residenziale tendono ad accentuare la systemic cooling poverty – le minoranze etniche e le persone a basso reddito, ad esempio, subiscono di più gli effetti nocivi del caldo eccessivo – nel parametro della salute rientrano numerose variabili che si configurano come cause ed effetti della povertà di raffrescamento (ad esempio il tasso di mortalità infantile aumenta in assenza delle infrastrutture passive e le persone affette da malattie cardiovascolari e respiratorie o da altre patologie sono più a rischio in condizioni di stress da calore).
Infine, in merito all’ultima dimensione – quella che riguarda il livello di istruzione e gli standard lavorativi delle persone – è fondamentale il ruolo delle istituzioni “che hanno il compito di fornire alla popolazione e alle aziende informazioni utili su come modificare le abitudini e i ritmi lavorativi per ridurre i rischi associati all’eccesso di calore. La cooling poverty impatta inoltre negativamente sull’accesso all’istruzione e sugli standard lavorativi. Quando mancano le infrastrutture passive di raffrescamento si osserva un peggioramento del rendimento scolastico e lavorativo, specialmente per le persone che lavorano all’esterno oppure in luoghi non adeguatamente ventilati e rinfrescati”, chiarisce ancora Mazzone nell’intervista.
Nelle sue conclusioni, questo interessante studio ribadisce che non esistono soluzioni uniche e definitive per risolvere i vari aspetti del problema in questione (in alcuni casi, ad esempio, è più necessario agire sulla pianificazione urbanistica, in altri sulla fornitura di acqua potabile e servizi igienici), ma è necessario approntare strategie diversificate, coordinate e improntate alla collaborazione tra vari soggetti. Solo con questo approccio i decisori politici potranno definire le azioni a livello locale e nazionale per alleviare i disagi dovuti all’eccesso di calore.
[Credits foto: eak_kkk su Pixabay]