Quale sarà il futuro dello sviluppo sostenibile? Mitigare la crisi ambientale e garantire una vita dignitosa agli abitanti di tutto il pianeta. È un sogno o una possibilità concreta? Sta tutto nei mezzi che decidiamo di adottare. Secondo l’evidenza scientifica, tuttavia, per ora stiamo scommettendo su una strategia che, con ogni probabilità, è destinata a fallire.
Quale sarà il futuro dello sviluppo sostenibile? L’approccio adottato dalle istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’ONU promuove la crescita economica nei Paesi in via di sviluppo, in modo che essi possano raggiungere la prosperità di cui oggi godono i Paesi ad alto reddito. Per quanto riguarda la sostenibilità ambientale, si ritiene che la crescita del PIL, se accompagnata da politiche adeguate, possa avvenire nel rispetto dei limiti ecologici. Questa prospettiva si riflette nei diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) previsti dall’Agenda ONU per il 2030, i quali comprendono ambizioni come “Lotta contro il cambiamento climatico” (numero 13), “Energia pulita e accessibile” (numero 7) e “Vita sulla terra” (numero 15) accanto a “Lavoro dignitoso e crescita economica” (numero 8). Questo tipo di strategia è conosciuto come “crescita verde”.
Gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile 2030
A questo punto dovremmo chiederci se questa strategia sia quella con la massima probabilità di successo e il minimo rischio di esiti gravi e irreversibili. Data la posta in gioco e l’impellenza della crisi ecologica, infatti, non è raccomandabile riporre tutte le nostre speranze in miglioramenti repentini che non possono essere previsti in base all’evidenza a oggi disponibile, come innovazioni tecnologiche miracolose ed effetti dirompenti delle correzioni politiche ai meccanismi di mercato. Il problema è che, una volta esclusi questi scenari utopici, la crescita verde non offre alcuna garanzia di prudenza ed efficacia.
Il rapporto “Decoupling Debunked” (letteralmente “disaccoppiamento smentito”), redatto nel 2019 dallo European Environmental Bureau, raccoglie l’evidenza scientifica disponibile sull’ipotesi della crescita verde. Il documento conclude che “non solo non c’è nessuna evidenza empirica a supporto dell’esistenza di un disaccoppiamento della crescita economica dalle pressioni sull’ambiente anche solo lontanamente vicino alla scala necessaria per evitare il collasso ambientale, ma inoltre […] sembra improbabile che un tale disaccoppiamento si verifichi in futuro”. Queste conclusioni includono anche le stime sul progresso tecnologico futuro basate sulle traiettorie attuali. In ragione di questo, gli autori raccomandano che i Paesi più ricchi abbandonino l’obiettivo della crescita economica continua e si adoperino invece per ridurre la produzione e il consumo, pur continuando a investire in politiche mirate a minimizzare l’impatto ambientale dei processi economici.
E i Paesi in via di sviluppo? L’evidenza scientifica mostra che all’aumentare del PIL pro-capite aumenta l’impronta ecologica pro-capite. L’impronta ecologica è un indicatore che misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti. Di conseguenza, se i Paesi più poveri raggiungessero gli obiettivi di crescita dettati dalle attuali agende di sviluppo, verrebbero oltrepassati i limiti del pianeta in termini di emissioni di gas-serra, perdita di biodiversità, porzione di suolo incontaminato, inquinamento dell’aria e dell’acqua, e così via. Neanche la decrescita dei Paesi più ricchi sarebbe sufficiente a mitigare l’impatto ambientale di una crescita sostenuta del Sud globale, considerando la massiccia differenza di popolosità tra le due aree. Questo succederebbe anche se tale crescita fosse ottenuta con gli standard tecnologici più avanzati a disposizione, come spiegato nel sopracitato “Decoupling Debunked”. Di conseguenza, anche l’idea che la crescita sia da abbandonare soltanto nei Paesi già ricchi è rischiosa.
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Fin qui sembrerebbe che, in nome della sostenibilità ambientale, i Paesi del Sud globale debbano rinunciare a migliorare le proprie condizioni di vita. In realtà, però, ci sono ragioni convincenti per pensare che il sottosviluppo non sia un problema di produzione economica insufficiente, bensì di distribuzione inefficiente e iniqua.
In altre parole, gran parte delle risorse disponibili viene destinata a migliorare ulteriormente il benessere materiale di una minoranza di individui che si trovano già altamente al di sopra della soglia minima, nonostante moltissime persone nel mondo non abbiano ancora accesso a tale soglia.
Per quanto riguarda il cibo, ad esempio, un articolo pubblicato nel 2022 su Nature Sustainability riporta che “Decenni di ricerca hanno mostrato che i primi fattori alla base dell’insicurezza alimentare sono problemi di distribuzione, povertà, corruzione, guerra e conflitto, disastri naturali e cambiamento climatico, piuttosto che un’insufficienza nella capacità di produzione di cibo a livello globale”.
Più in generale, la ricerca mostra che le filiere produttive globali tendono, da un lato, a estrarre materie prime, terreni, energia e manodopera dai Paesi più poveri verso quelli più ricchi, mentre, dall’altro, remunerano maggiormente le risorse di questi ultimi.
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Non si tratta di una distorsione dolosa del funzionamento dei mercati globali; al contrario, assegnare maggior valore alle risorse più scarse è esattamente ciò che ci si aspetta dall’allocazione di mercato. Il problema, in questo caso, sta nel fatto che il commercio internazionale, per come ha funzionato finora, produce un perverso incentivo all’impoverimento materiale dei Paesi del Sud globale, il quale non viene comunque compensato dall’arricchimento in termini monetari. Allo stesso tempo, i Paesi del Nord globale accumulano sempre più risorse materiali e monetarie, che usano per aumentare ulteriormente la produzione e il consumo, intensificando così la propria pressione sul pianeta. Questo meccanismo contribuisce sia a perpetuare le disuguaglianze economiche tra Paesi, sia a stimolare il degrado ambientale, con impatti sia locali sia globali.


In un contesto simile, invece dell’aumento continuo della produzione, sono le politiche ridistributive a emergere come soluzioni promettenti non soltanto per rendere possibile lo sviluppo dei Paesi più poveri, ma anche per assicurare la sostenibilità dell’economia globale. È più facile a dirsi che a farsi, considerando che si tratterebbe di una netta inversione di rotta negli indirizzi politici nazionali e internazionali. In effetti, uno dei risultati del paradigma della crescita è stato proprio quello di rimuovere l’equa distribuzione dalle priorità della politica economica, secondo l’idea che le disuguaglianze non siano un problema a condizione che anche chi ha meno di tutti abbia abbastanza.
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La trappola, tuttavia, è che questa condizione, a livello internazionale e intranazionale, è lontana dal realizzarsi e ottenerla attraverso la crescita implicherebbe danni ecologici tali da peggiorare le condizioni di vita di tutti. A questo punto, ciò che dobbiamo iniziare a chiederci nel momento in cui, come cittadini, avanziamo delle richieste nei confronti dei governi è se valga la pena martoriare l’unico pianeta in cui possiamo vivere pur di lasciare indisturbata l’accumulazione di profitto da parte di pochi.
di Flavia Capasso
L’articolo è frutto della collaborazione con il corso di Laurea Magistrale in Economia dell’Ambiente, della Cultura e del Territorio dell’Università degli Studi di Torino, nell’ambito del Laboratorio di Comunicazione Ambientale curato dalla professoressa Silvana Dalmazzone e Davide Mazzocco
[Foto di copertina: Gli obiettivi di sviluppo sostenibile del Museo a Come Ambiente di Torino | Ph. di Michele D’Ottavio]
