Manodopera di Alain Ughetto racconta, tramite un toccante dialogo fra nonna e nipote, di un mondo perduto fra il Monviso e la Francia.
Interdit aux chiens et aux italiens [Vietato ai cani e agli Italiani], era un cartello che si incontrava in diversi bistrot in Francia, Svizzera, Belgio ed è il titolo originale di Manodopera il film di Alain Ughetto che racconta di quando eravamo noi i migranti.
Il ricordo è qualcosa che colpisce i sensi. Può avere un sapore e un odore. Può essere il sapore di un piatto di gnocchi di patate con il sugo di pomodoro. Oppure il profumo della terra di casa. Così gradevole che la si potrebbe mangiare. È il suono della fisarmonica dei giorni di festa, o delle scarpe che strisciano sulle pattine per non sporcare il pavimento.
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Il ricordo può essere tante cose, pure la nostalgia di qualcosa che non si è conosciuto ma che ci sarebbe tanto piaciuto. Come la voce di un parente che non si è potuto incontrare o che si ha avuto la possibilità di farlo per poco. E con cui non si è riusciti a parlare abbastanza.
Una voce che non è solo un accento o un timbro, ma anche la testimonianza. Essa si carica di sensazioni e eventi che sono passati, oramai iscritti in quella che viene definita Storia. Dimenticando che all’interno di essa ci sono le storie, quelle piccole, fatte dai piccoli uomini e donne. Costoro, con i loro piccoli e semplici gesti quotidiani, hanno contribuito che l’altra storia (quella con la S maiuscola) fosse possibile.
Una di queste è la storia della famiglia Ughetto. Sono tre fratelli, di cui il maggiore si chiama Luigi. Ha un cappello di feltro dalle large falde dal quale non si separa mai. Sa acchiappare le mosche al volo mentre lavora con il piccone. Ma, soprattutto, è infaticabile. Vive in un piccolo paese alle pendici del Monviso, Ughetterra, e lavora alle miniere di carbone. Da casa sua è possibile vedere il campanile della chiesa che emerge da nuvole soffici come ovatta. Sul cucuzzolo dove vive con i suoi genitori, i suoi fratelli e sorelle, arrivano solo il parroco per prendere la questua e il postino. Il mondo esterno è solo portatore di guai da parte delle istituzioni, che siano la Chiesa o lo Stato.
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Siamo alla fine del XIX secolo, e gli italiani sono un popolo di lavoratori ed emigranti. Vagano in giro per il mondo in cerca di lavoro e sono considerati delle braccia forti ed ubbidienti ovunque vadano. E a dirlo sono sia i francesi della vicina Savoia, sia gli svizzeri per i lavori del Traforo del Sempione (1898 – 1905).
E proprio in Svizzera va a lavorare Luigi con i suoi fratelli Alcide e Antonio. Lo fanno per aiutare la famiglia, costretta a mangiare prevalentemente castagne e polenta nei periodi di magra. Il lavoro per il Traforo è estremamente duro, in quanto prima di scavare la montagna, è necessario creare prima la strada a colpi di piccone e dinamite. E, scavando la galleria bisognava avere a che fare con l’acqua che rendeva fragile il soffitto e riempiva tutto di fango. Così i tre fratelli si ingegnano e riescono a risolvere il problema con la tipica arte italiana di arrangiarsi, creando soluzioni.
Proprio durante questo lavoro che Luigi incontra Cesira, una giovane che, come tante altre, portava l’acqua agli operai. Il mondo improvvisamente si ferma, ci sono solo loro due, il piccone e la borraccia d’acqua. Scompare il cantiere e siamo in una valle a lanciare sassi sul pelo dell’acqua a disegnare cuori. È l’inizio di un amore che non si esprimerà con gesti grandiosi, ma con l’eloquente delicatezza del momento. Oppure attraverso il gioco infantile di una volta. Un amore fatto di difficoltà affrontate senza bugie. Un amore che passa anche per i figli che nascono e che, purtroppo, muoiono. Una vita difficile in cui, però, non si smette di combattere affinché il proprio fazzoletto di terra possa diventare un paradiso.
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Questa è la storia che viene raccontata in Manodopera (Interdit aux chiens et aux Italiens) di Alain Ughetto, uscito in sala con Lucky Red il 31 agosto. Il film è stato presentato in anteprima al Festival Internazionale del Cinema d’Animazione di Annecy dove ha vinto il Premio della Giuria come Miglior Lungometraggio. Successivamente è stato il film di pre-apertura del 75° Locarno Film Festival e nella sezione Fuori Concorso del 40 Torino Film Festival.
Naturalizzato francese ma di origini piemontesi Ughetto ha deciso di raccontare la storia della propria famiglia in modo insolito. Ossia attraverso il dialogo immaginario con la nonna Cesira, scomparsa quando lui era ancora piccolo. Lei non parlava volentieri delle proprie origini. Il nipote crea quindi una immagine idealizzata della nonna con la cera: la plasma, la veste e le regala un foulard e una casa. Quando lei prende vita offre a Alain un caffè molto forte, prima di incominciare il suo racconto.
Perché la storia è raccontata con la sua voce e quella del regista. Grazie all’animazione in stop-motion nonno Luigi, i suoi fratelli, i suoi famigliari e tutto un mondo, prendono vita. Il suo autore non nasconde la sua natura di creatore della storia e dei personaggi. Fa tutto parte del gioco che non è mai fine a se stesso. Le castagne che Luigi e la sua famiglia raccolgono sono vere castagne che, per loro, alti poco più di venti centimetri, risultano pesantissime. Cercano quello che serve loro in una scatola di cartone che il regista gli ha lasciato lì. Se a qualcuno serve un attrezzo, la manona di Alain entra in campo e ne allunga uno. Le scatole sono piene di oggetti e di animali. Ma questi ultimi non si muovono, come una mucca con la testa dondolante. Non serve a nulla perché non produce latte.
Il ricordo può passare anche dal tatto. Dagli strumenti che Luigi ha utilizzato per tutta una vita, Alain riesce a creare un legame. Il legame che lega non solo nonno e nipote ma anche il loro lavoro. Un lavoro non di testa ma manuale, seppure in modi diversi.
Il regista cerca di comprendere maggiormente se stesso plasmando il proprio passato. Non prima di aver cercato di vederlo tramite delle vecchie foto di famiglia, in realtà estremamente sfuggenti o a ricercare i luoghi della propria origine. Proverà visitare Ughetterra oggi. Un paese fantasma con poche case dai tetti di pietra sfondati e dove la vegetazione domina. La terra, quella buona terra dal profumo così inebriante è tornata a prendere possesso delle case e delle vie. Un pugno di terra che Ughetto raccoglie e mette in una scatola. Perché il ricordo possa germogliare bene.