Nel suo documentario Earth Protectors l’artista e regista Anne de Carbuccia racconta le storie degli uomini impegnati nella salvaguardia ambientale in varie parti del mondo
Non vittime, ma artefici del cambiamento: con queste parole l’artista e regista franco-americana Anne de Carbuccia definisce i protagonisti del suo ultimo documentario “Earth Protectors” (2022, 96′), i protettori della terra che in varie parti del mondo si stanno battendo per la salvaguardia ambientale.
Di fronte al devastante impatto dell’uomo sui cicli naturali, il bel film racconta la necessità per il genere umano di adattarsi a questa nuova era ribattezzata Antropocene. “L’idea di Earth Protectors mi è venuta gradualmente col tempo. Più viaggiavo, più incontravo queste persone straordinarie, impegnate in progetti ambiziosi e innovativi in ambienti spesso estremi. Attraverso queste esperienze ha iniziato a prendere forma un’immagine ricorrente: la vita di questi giovani che amavano la loro regione e la loro cultura e che si stavano attivando per proteggerla”, afferma la regista, conosciuta soprattutto per le sue installazioni artistiche in tutto il mondo, incentrate sull’emergenza climatica e sulla conseguenze dell’impatto ambientale provocato dalle attività umane.
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Il film Earth Protectors è stato presentato recentemente in occasione di un’iniziativa del Clorofilla Film Festival all’interno del Varzi Festival.
Dall’Himalaya all’Amazzonia, dalla Siberia al Nord Africa
“Le missioni impossibili sono le sole ad aver successo”, con questa bella citazione di Jacques Cousteau inizia il documentario che ci porta in giro nel mondo in quei luoghi meno battuti e raccontati, che pur essendo i minori responsabili del cambiamento climatico ne subiscono di più le conseguenze. Un viaggio che nelle intenzioni della regista vuole ispirare lo spettatore, “voglio che ciascuno di noi capisca che può diventare una forza geologica positiva. I nostri pensieri e le nostre azioni quotidiane hanno un impatto sul pianeta e questo ci rende potenti”.
Con le foto delle sue installazioni artistiche realizzate in ogni angolo del mondo a partire dal 2013, chiamate Timeshrines, l’artista ambientale de Carbuccia ricorre a simboli potenti per documentare il cambiamento in atto, “volevo mostrare ciò che abbiamo, ciò che stiamo per perdere e soprattutto ciò che abbiamo già perso”. Un fenomeno globale con impatti locali: nel film l’intuizione artistica si fonde con il parere degli esperti, per poi gettare un barlume di ottimismo a partire dalle storie virtuose dei protettori della terra incontrati dall’artista nelle sue lunghe peregrinazioni.
Si parte così dalle vette di uno dei luoghi meno accessibili dell’Himalaya, l‘Upper Mustang in Nepal, dove un gruppo di giovani cerca di proteggere la cultura e le arti locali e di impedire lo spopolamento già in atto di villaggi millenari, dovuto al ritirarsi dei ghiacci ed alla scarsità di acqua. Una perdita ambientale e culturale che nelle immagini potenti e purtroppo “aride” dimostra quanto sia antiscientifico non credere al cambiamento climatico, che necessita della massima collaborazione e di un impegno comune per evitare che porti le sue terribili conseguenze un po’ ovunque. L’unica soluzione non è un maggior controllo sulle risorse ma un loro utilizzo sostenibile ed etico. In fondo, l’impatto ambientale della sola New York è di ben sei volte superiore a quello dell’intero Nepal.
Non va meglio nell’Amazzonia peruviana, dove la regista incontra le poco numerose guardie forestali della tribù degli Shipibo impegnate a difendere il polmone del mondo – ed in particolare le foreste vergini e “gli alberi spirito” più alti e antichi patrimonio di biodiversità – dagli attacchi dei taglialegna e dei contadini che disboscano e incendiano anche per le attività illegali, quali la coltivazione della coca. Tra il 2010 ed il 2020 l’Amazzonia ha perso ben 19,4 milioni di ettari di foresta in nove Stati, “c’è molto inquinamento nei Paesi ricchi e noi siamo l’ultima barriera contro l’inquinamento”, dichiara il forestale indigeno. In quest’esplosione di vegetazione trasformata in zona di guerra dall’azione dell’uomo, de Carbuccia realizza installazioni tra simboli rituali e di distruzione riflettendo sul senso della sua arte, una rappresentazione simbolica tramite oggetti naturali o manufatti che è un processo di apprendimento continuo dei luoghi e delle persone, con le loro storie, sfide e difficoltà.
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Bruciano anche le foreste siberiane intorno al lago Bajkal, il più antico al mondo, principale fonte d’acqua della Terra. Mentre l’artista realizza le sue installazioni, qui arricchite dallo sguardo concesso da un maestoso lupo siberiano, si susseguono le frenetiche notizie dal mondo sulla crisi climatica, che potrebbe ulteriormente inasprire la competizione tra gli Stati per l’accaparramento di risorse naturali sempre più scarse, innescando pericolose crisi geopolitiche. Perfino il lago Bajkal si sta abbassando, difeso da giovani guide ambientali e altri attivisti che cercano di sensibilizzare la popolazione: l’acqua dolce, già carente in molte parti del mondo, sarà sempre meno disponibile e potrebbe scatenare ulteriori conflitti.
Entro il 2050 si prevede che potrebbero migrare oltre un miliardo di persone a causa delle minacce ambientali globali: Anne de Carbuccia si sposta così in Nord Africa, dove queste migrazioni di massa sono destinate ad intensificarsi. Ecco dunque l’incontro con i rifugiati climatici, che sulla loro pelle sperimentano non solo gli effetti della crisi climatica ma anche terribili abusi ed il mancato rispetto dei diritti umani. La regista è lì per documentare tutto con il linguaggio dell’arte, che “ha il compito civico di ricordarci chi siamo, a che luogo apparteniamo, quali sono le nostre radici, cosa siamo riusciti ad ottenere e cosa possiamo ancora ottenere“, spiega de Carbuccia. Un’arte quanto mai in prima linea e militante.
Il sovrasfruttamento e l’inquinamento dei mari
L’incontro della regista con la biologa marina italiana Mariasole Bianco introduce il tema dell’eccessivo sfruttamento e inquinamento dei mari. La biologa invita a non fermarsi alla superficie ma ad andare alla profondità delle cose e quindi dei problemi, ricordando che l’80% di tutte le specie viventi abita l’ambiente marino e che i mari coprono il 71% della superficie terrestre. “Ogni anno dagli otto ai dieci milioni di tonnellate di plastica finiscono nei mari attraverso i fiumi. Il 95% della plastica che finisce in mare affonda nel giro di cinque mesi. Luoghi ancora inesplorati dall’uomo già subiscono l’inquinamento da plastica”, spiega Bianco.

In una delle sue foto artistiche realizzata durante un’immersione, de Carbuccia fotografa un branco di meduse in mezzo ad altri oggetti di plastica, a due di questi aggiunge nel ritocco una clessidra e un piccolo teschio: d’un colpo pare di trovarsi di fronte a due terribili sirene. L’arte documenta un pericolo che riguarda tutti, perché ogni anno migliaia di mammiferi marini muoiono a causa dell’ingestione di plastica.
Antropocene
Si definisce Antropocene l’epoca geologica in cui l’ambiente terrestre viene fortemente condizionato a livello locale e globale dagli effetti dell’azione umana. La regista lo scopre girando per il mondo e documentando la distruzione. Rifiuti ovunque. Sul banco degli imputati finisce il nostro modello di produzione e consumo, d’altronde la maggior parte delle emissioni di gas climalteranti in atmosfera si è registrata negli ultimi 50 anni, quindi in un arco di tempo molto ristretto. “È scattato qualcosa nella mia mente e nella mia anima. Cosa lasceremo? La nostra archeologia sarà la spazzatura? La nostra civiltà è questo?”, afferma De Carbuccia a Tivoli mentre realizza la sua installazione tra resti archeologici e rifiuti di ogni tipo.
Studi scientifici hanno dimostrato che ingeriamo cinque grammi di plastica a settimana, l’equivalente di una carta di credito. Un altro scienziato incontrato dalla regista, Roberto Ambrosini, studia le microplastiche nei ghiacciai. Non avete letto male, trascinati dalle correnti aeree questi rifiuti arrivano addirittura fin lì. Ridurre le emissioni, mitigare gli effetti del cambiamento climatico ed adattarci velocemente a questa mutata situazione sono le soluzioni dettate dal mondo della scienza.
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Un esempio di adattamento sono i terrazzamenti che permettono alle acque di scorrere e di ritirarsi, come dimostra il Kasukabe underground tank a Kasennuma (Giappone), non altro che un’enorme struttura che ha difeso la popolazione dalle inondazioni dovute allo straripamento dei fiumi. La cisterna si è infatti riempita ben 121 volte dalla sua realizzazione nel 2002, permettendo di salvare migliaia di vite.
Gli Earth Protectors non restano con le mani in mano: nello Yucatan, in Messico, gli Jòvenes por Xalac monitorano le popolazioni marine, svolgono azioni di sensibilizzazione e documentano la vergogna dell’inquinamento delle spiagge da parte dell’alga sargasso che sta minando il turismo a causa dell’agricoltura intensiva; i “Fridays for Future” di Greta Thunberg, dopo i primi scioperi per il clima, sono divenuti ormai una realtà mondiale e rappresentano la protesta da parte dei giovani; una di loro, Alexandria Villa Señor, ha fondato un altro movimento globale giovanile per il clima, Earth Uprising, e lotta per evitare che Pebble Beach in California scompaia a causa dell’innalzamento dei mari.
Se il Covid 19 ha dimostrato a che punto può arrivare l’Antropocene, un barlume di speranza proviene dall’uso sapiente della tecnologia che può far molto in difesa dell’ambiente, come dimostrano i primi esperimenti di agricoltura sottomarina in Italia od i droni utilizzati dalle popolazioni indigene in Amazzonia.
Il documentario dimostra che l’ignoranza è la peggior nemica, perché solo la presa di coscienza di quanto sta accadendo può stimolare all’azione e quindi al cambiamento. Con le mostre in tutto il mondo dei suoi Timeshrines, Anne de Carbuccia cerca di orientare il pubblico verso un futuro sostenibile ed ha anche il merito di diffondere il messaggio dei protettori della terra, che lei stessa sostiene grazie alla sua Fondazione One Planet One future. A Torino, fino al 30 agosto, è possibile visitare la mostra omonima nel Cortile del Rettorato.
[Credits foto: One Planet One Future, oneplanetonefuture.org]
