Shein sostanze chimiche pericolose

Sostanze chimiche pericolose sugli abiti del marchio Shein, l’indagine di Greenpeace

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Sostanze chimiche pericolose sugli abiti del marchio Shein, l’indagine di Greenpeace ultima modifica: 2022-11-30T07:20:18+01:00 da Marco Grilli
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L’indagine di Greenpeace sugli abiti del marchio di ultra fast-fashion Shein ha rivelato la presenza oltre i limiti di sostanze chimiche pericolose e un modello di business improntato alla devastazione ambientale

L’ultra fast fashion torna a far parlare di sé:  un rapporto appena diffuso da Greenpeace Germania ha rivelato la presenza di sostanze chimiche pericolose, al di là dei limiti consentiti dalle leggi europee, in un campione di capi del marchio Shein.

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I dettagli dell’indagine di Greenpeace

Cresciuto particolarmente negli ultimi due anni, il marchio Shein si contraddistingue per un modello di business basato sull’immissione in commercio ogni giorno di migliaia di nuovi modelli, confezionati in meno di una settimana. Destinati perlopiù a un pubblico giovane, questi capi di bassa qualità a prezzo ridotto  si traducono presto in enormi quantità di rifiuti tessili inquinanti.

In generale, l’ultra fast fashion porta alle estreme conseguenze il fast fashion anche in termini di sfruttamento dei lavoratori, con numerose illegalità segnalate un po’ ovunque nei Paesi produttori, così come i danni ambientali, poiché la super-produzione di vestiti realizzati principalmente con fibre derivanti dal petrolio è destinata a generare notevoli quantità di rifiuti non riciclati.

Shein ricorre ad una strategia vincente di marketing, utilizzando le piattaforme social per attirare il pubblico giovane grazie anche all’opera di influencer, che in cambio della pubblicità al marchio ricevono prodotti gratuiti ed altri vantaggi.  Dietro ai riflettori restano  i fornitori, i lavoratori delle sartorie nel Guandong che lavorano a ritmi forsennati, così come le fabbriche destinate a tingere i tessuti, ovvero le massime responsabili dell’inquinamento delle acque.

Per riportare un po’ di luce sulla gestione delle sostanze pericolose nelle filiere produttive, Greenpeace ha deciso di condurre un’indagine acquistando  42 articoli online dai siti web di Shein in Austria, Germania, Italia, Spagna e Svizzera, altri cinque al dettaglio in un negozio di Monaco di Baviera. I prodotti son stati poi inviati ad un laboratorio indipendente per la valutazione della presenza di sostanze chimiche, quali composti organici volatili, alchilfenoli etossilati, formaldeide, ftalati, PFAS, metalli pesanti ecc. I risultati sono stati impietosi: almeno una sostanza chimica pericolosa è stata rilevata nel 96% dei prodotti analizzati, mentre in 7 articoli su 47 (il 15% del totale) sono state riscontrate sostanze chimiche pericolose in concentrazioni superiori ai limiti stabiliti dalle leggi europee, in base al regolamento Reach. Livelli preoccupanti sono stati registrati anche in altri 15 prodotti, corrispondenti al 32% del campione analizzato.

Solo per limitarsi ad alcuni esempi, tutti e sette gli articoli tra capi d’abbigliamento, accessori e scarpe sono stati realizzati interamente o in parte con materiali sintetici derivati dalla produzione di combustibili fossili, mentre in altri  son stati rilevati livelli al di sopra del consentito di ftalati, formaldeide, nichel ecc.

L’uso di sostanze chimiche pericolose è alla base del modello di business di Shein, con alcuni prodotti illegali che stanno invadendo i mercati europei. Chi paga il prezzo più alto della dipendenza chimica di Shein sono i lavoratori che operano nelle filiere produttive del colosso cinese e sono esposti a seri rischi sanitari, ma anche le popolazioni che vivono in prossimità dei siti produttivi”, ha  dichiarato Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia, che invita a fermare subito l’ultra fast fashion poiché  “aggrava gli impatti del settore e accelera la catastrofe climatica e ambientale”.

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L’impatto sociale e ambientale dell’ultra fast fashion

Il 10% delle emissioni globali di gas serra dipende dall’industria della moda, che rappresenta una delle principali cause di inquinamento delle acque in tutto il mondo. A pagarne di più il prezzo in termini di impatto ambientale, oltre l’80%, sono i Paesi generalmente arretrati e in via di sviluppo a cui si deve la gran parte della produzione tessile mondiale.

La campagna Detox di Greenpeace ha rilevato l’uso e abuso di sostanze chimiche pericolose nelle filiere produttive tessili, destinate a inquinare gravemente i corsi d’acqua dei Paesi fornitori dei grandi marchi internazionali, situati perlopiù nell’Asia orientale, nel sud-est asiatico e in America centrale. Quegli stessi Paesi all’ordine del giorno per la violazione dei diritti dei lavoratori addetti al settore tessile, tra lavoro nero o precario, salari bassissimi, mancanza di sicurezza e rischi per la salute. Al contempo, molte delle sostanze chimiche utilizzate nel settore moda sono persistenti e finiscono per inquinare anche ben al di là dei siti produttivi, andando a costituire quella che Greenpeace definisce un’eredità tossica per le generazioni future.

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Sull’onda della campagna Detox alcuni marchi stanno cercando di ripulire le loro filiere produttive già note per lo spreco di risorse, ma molto spesso le iniziative di sostenibilità e circolarità possono esser considerate solo esempi di greenwashing. D’altronde, il modello di business non circolare tipico del fast fashion non potrà mai esser considerato sostenibile. La produzione di enormi quantità di capi di abbigliamento “usa e getta” rende infatti il riciclo un aspetto risibile, basti pensare che solo l’1% dei vestiti venduti in  tutto il mondo viene prodotto a partire dai rifiuti tessili, mentre le merci invendute o restituite dai clienti vengono abitualmente distrutte.

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Le soluzioni per Greenpeace ci sono, basterebbe abbandonare il fast fashion e produrre meno abiti e di migliore qualità, con cicli di vita più lunghi, progettati per essere riparabili e realmente riciclabili. L’organizzazione ambientalista chiede inoltre all’Unione europea di applicare le leggi vigenti sulle sostanze chimiche pericolose, un requisito fondamentale per lo sviluppo di una vera economia circolare. Infine, gli aspetti dello sfruttamento della manodopera, dell’inquinamento nelle fasi produttive e della gestione di rifiuti a fine vita “devono essere affrontati urgentemente con un trattato globale e un approccio simile a quello attualmente in discussione sulla plastica, che affronti finalmente la gigantesca impronta ecologica dei settori del tessile e della moda”, dichiara Ungherese.

L’ultra fast rinnega l’equità e la tutela ambientale, pensiamoci quando facciamo shopping.

Sostanze chimiche pericolose sugli abiti del marchio Shein, l’indagine di Greenpeace ultima modifica: 2022-11-30T07:20:18+01:00 da Marco Grilli
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Laureato in Lettere moderne, giornalista pubblicista e ricercatore in storia contemporanea, è consigliere dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea. Nei suoi studi si è occupato di Resistenza, stragi nazifasciste e fascismi locali, tra le sue pubblicazioni il volume “Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia”. Da sempre appassionato di tematiche ambientali, ha collaborato con varie testate online che trattano tali aspetti. Vegetariano, ama gli animali e la natura, si sposta rigorosamente in mountain bike, tra i suoi hobby la corsa (e lo sport in generale), il cinema, la lettura, andar per mostre e la musica rock.

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