Le ali non sono in vendita di Paolo Campana e Intrecci etici di Lucia Mauri e Lorenzo Malavolta hanno portato a CinemAmbiente i lati oscuri della fast fashion
Il settore della moda rappresenta una parte importante della spesa dei consumatori eppure le implicazioni etiche ed economiche della produzione, distribuzione e vendita dei capi d’abbigliamento non vengono trattate con l’attenzione che viene riservata, per esempio, ai prodotti agroalimentari. Anche a causa di questa disattenzione di massa, il fenomeno della fast fashion è riuscito a dilagare nei primi due decenni del XXI secolo, alimentato da una delocalizzazione diffusa e dalla diminuzione del potere di spesa dei consumatori.
Alla fast fashion e alle strategie di contrasto di questo fenomeno sono stati dedicati due documentari “gemelli” inseriti all’interno della sezione Made in Italy del Festival CinemAmbiente svoltosi a Torino dal 1° al 6 ottobre 2021: Le ali non sono in vendita di Paolo Campana e Intrecci etici di Lucia Mauri e Lorenzo Malavolta.

Le ali non sono in vendita di Paolo Campana
Al termine di un lungo sonno Dedalo si sveglia prigioniero di un labirinto che lui stesso ha costruito, impigliato con Arianna in un filo rosso con cui il Minotauro lega a sé le persone. Addolorato per la perdita del figlio Icaro, Dedalo decide di cercarlo nel mondo contemporaneo dominato dai brand e dal consumo sfrenato di abiti. È questo il subplot “mitologico” con cui il regista Paolo Campana sceglie di raccontare, insieme ad alcuni studenti di moda, l’impatto della produzione dell’abbigliamento low cost sull’economia, sull’ambiente e sulla società.
A guidarlo in questo viaggio sono psicologi, sociologi, imprenditori e attivisti. La filiera dell’abbigliamento, in passato impostata sulla stagionalità, ha raggiunto oggi il parossismo di collezioni a cadenza settimanale. Per convincere le persone ad assecondare questi ritmi di consumo si reclutano influencer e testimonial provenienti dallo star system e dal mondo dello sport. Il problema della fast fashion non è soltanto economico, ma ricade sulla politica, la società e la cultura.
Secondo le stime più recenti circa 60 milioni di lavoratori alimentano l’industria globale dell’abbigliamento, con un giro d’affari quantificabile in miliardi di euro di profitti. L’80% di questa forza lavoro è composta da donne e affinché il sistema possa reggere i costi di produzione vengono tenuti bassissimi, coinvolgendo anche lavoratori minorenni.
Cos’è la fast fashion, la moda economica dagli altissimi costi ambientali e sociali
Lo sfruttamento nella fase della produzione ha il suo contraltare nella fase della vendita al pubblico, con negozi che lavorano ormai 7 giorni su 7, sistematiche violazioni dei diritti dei lavoratori che vengono addirittura “telecomandati” attraverso delle auricolari dai loro datori di lavoro.
Il viaggio di Campana fa tappa a Savar, nel sub-distretto di Dacca, capitale del Bangladesh, luogo nel quale il 24 aprile 2013 è avvenuto il crollo del Rana Plaza; gran parte delle 1129 vittime e dei 2515 feriti lavoravano all’interno di fabbriche di abbigliamento che forniscono manodopera a basso costo ai grandi marchi occidentali.

Gli alti ritmi di consumo, l’utilizzo di fibre sintetiche e la linearità sulla quale è impostata la fast fashion provocano danni pesantissimi all’ambiente. Per produrre una semplice t-shirt, infatti, vengono impiegati mediamente 20 kg di sostanze e 700 litri d’acqua, numeri che ben chiariscono quanti rifiuti vengano prodotti prima che il capo venga venduto. Ma ci sono anche i rifiuti alla fine del ciclo, una quantità che è aumentata in maniera esponenziale con la fast fashion: in Italia, per esempio, raccogliamo annualmente 150.000 tonnellate di rifiuti da abiti usati, con una quota pro-capite di 2,5 kg. In Australia, dove il potere d’acquisto è altissimo, si raccolgono addirittura 27 kg di abiti usati per abitante.
Che fare? Per la campagna Abiti Puliti le aree di intervento sono principalmente sei: accesso alla giustizia, regole vincolanti per le imprese, libertà sindacale, salario vivibile, sicurezza sul lavoro e trasparenza.

Intrecci etici di Lucia Mauri e Lorenzo Malavolta
Il settore della moda contribuisce al 20% dello spreco globale di acqua e al 10% delle emissioni di anidride carbonica; l’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica e solamente l’1% viene davvero riciclato. Questi numeri e la consapevolezza dell’impatto socio-ambientale della fast fashion hanno dato vita a numerose iniziative imprenditoriali che hanno come obiettivo la sostenibilità e la circolarità nella produzione di tessuti, capi di abbigliamento e calzature.
Il documentario Intrecci etici di Lucia Mauri e Lorenzo Malavolta racconta le storie di alcuni produttori italiani che si stanno impegnando concretamente per rendere la moda più etica e sostenibile: da chi si occupa di fibre e tessuti naturali a chi produce solo su ordinazione, da chi trasforma rifiuti in risorse a chi impiega persone più fragili, fino a chi ha deciso di mantenere l’intera filiera sul territorio.
Come spiega nell’epilogo Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution Italia, “il consumatore ha un potere enorme ed è dentro il suo portafoglio. Noi ogni volta che compriamo qualcosa votiamo per il mondo che vogliamo”.
