Dear Werner – Al TFF38 un nuovo viaggio all’interno del paesaggio

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Dear Werner – Al TFF38 un nuovo viaggio all’interno del paesaggio ultima modifica: 2020-12-20T08:00:58+01:00 da Emanuel Trotto
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Dear Werner, film di Pablo Maqueda, presentato all’ultima edizione del Torino Film Festival, è un omaggio al cineasta tedesco in forma di diario di un viaggio in un paesaggio interiore

Dear Werner, una lettera d’amore al cinema del regista tedesco Herzog.

Bisogna che lo confessi. Con Werner Herzog difficilmente riesco ad essere obbiettivo. Quasi per nulla a dire la verità. Perché? Perché il suo cinema crea sensazioni uniche. Le sensazioni che creano le sue immagini sono paragonabili ai quadri di Caspar David Friedrich, come Il viandante sul mare di nebbia. Dei paesaggi naturali che nella loro cupezza e ampiezza provocano nello spettatore una sensazione di sublime. Ovvero la meraviglia mescolata all’orrore. La meraviglia di assistere ad una tempesta, ma restando ad ammirarla in un punto sicuro. E consapevoli di essere al sicuro. Nonostante la tentazione estrema di essere parte di quella terribile magnificenza. Il viandante di Friedrich è diviso fra questi due sentimenti. Il sentimento di appagamento di essere sopra l’ignoto e l’incontrollabile desiderio di immergersi in esso.

Un desiderio che il regista Pablo Maqueda ha realizzato, mettendo in scena il documentario Dear Werner – Walking on Cinema, presentato nella 38 edizione del Torino Film Festival all’interno della sezione TFFDoc – Paesaggio. Una sezione che è stata creata allo scopo di mostrare il dialogo costante che il paesaggio ha con le arti figurative. Dialogo che è confluito nel cinema. Ciò avviene nel momento in cui, all’inizio del Novecento, il paesaggio è stato contaminato dalle periferie industriali. E quindi dall’urbanizzazione e dalle deforestazioni.

Un paesaggio che è stato recuperato in gran parte dal cinema documentario. Grazie a esso, a differenza del film di finzione, esso non è solo uno sfondo scenografico. Diviene attivo protagonista, in dialogo con l’uomo e anche in conflitto. Un conflitto, naturalmente, impari. Nel quale il progresso tecnologico della resa dell’immagine ha reso sempre più vivido il paesaggio. In tutta la sua presenza. Una presenza indifferente alle vicende dell’uomo.

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Questo punto, in particolare, è da sempre stato il cuore della narrazione di Herzog. Sia che si trattasse di cinema di finzione che cinema documentario. Ha creato così un corpus concettuale e poetico molto preciso. Un corpus che Maqueda ha conosciuto e imparato ad amare con il tempo. In particolare, oltre che alla sua opera cinematografica, è stato colpito anche dalla sua prosa. Nello specifico, la lettura del libro Sentieri nel ghiaccio (in Italia da Ugo Guanda Editore).

Esso è un diario che Herzog ha scritto nel 1978. In esso si racconta del viaggio che l’autore ha compiuto nel 1974. Viaggiò per raggiungere il capezzale della sua amica e mentore Lotte Eisner. La Eisner (1896 – 1983) è stata una fra le maggiori critiche cinematografiche, scrittrici e storiche della settima arte. Essa era in condizioni critiche a seguito di un infarto. Herzog, allo scopo di scongiurare una possibile dipartita decide di mettersi in viaggio da Monaco a Parigi. Mettendo un piede davanti l’altro. Infatti è stato un viaggio che il regista ha compiuto a piedi. Come un moderno pellegrino. Rinunciando alla comodità dei mezzi di trasporto moderni. Per cercare una redenzione cinematografica, all’inizio. Ma anche alla ricerca di quella conquista del paesaggio. Della sua vera essenza, che non abbandonerà mai Herzog per il resto della sua esistenza.

Il regista Pablo Maqueda in una scena del film.

Questo viaggio, questo diario per Maqueda è il “film invisibile” di Herzog. Immagini mentali costituite dalle sensazioni purissime indotte dalla parola scritta. Come umile omaggio, Maqueda decide di intraprendere il medesimo pellegrinaggio. Raggiungendo Monaco e da lì, mettersi in marcia per Parigi. Un itinerario metodologicamente studiato. A partire dallo studio del diario stesso. Una impresa per nulla facile in quanto a Herzog non importavano i luoghi in sé, ma i sentimenti da essi provocati. Un viaggio emotivo e sentimentale di 775 chilometri. Un percorso il più simile possibile ad una linea retta. «Presi la strada più diretta per Parigi, nell’assoluta fiducia che lei sarebbe rimasta viva se io fossi arrivato a piedi», scrive Herzog.

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«Trovare se stessi attraverso le piante dei piedi». Sempre citando Herzog, Maqueda ha intrapreso il suo viaggio. Quello che vediamo sono luoghi che sembrano provenire da un altro pianeta. Il regista si muove in cittadine vuote a parte qualche macchina. Percorre lunghe strade deserte. Ma soprattutto incontra tanta nebbia. Il film si apre proprio con montagne ricoperte di pini a loro volta avvolti da nubi basse e dense. Il viaggio di Maqueda è il tentativo di immergersi in queste nubi. Sono nubi non solo fisiche, ma anche interiori. Gli ambienti diventano sinonimo di ricerca, di inquietudine umana e intellettuale.

È il film sull’incapacità di affrontare le proprie paure, in primis quella della morte. Herzog intraprese quel viaggio per strappare Lotte dalla morte. Maqueda compie lo stesso viaggio per scongiurare la sua morte spirituale. Celebrando, quella in vita, del suo Mentore. Scongiurando la caduta dei suoi progetti futuri nella “grotta dei film dimenticati”, ammirando i grandi cicli pittorici che emergono dall’oscurità nella Grotta Chauvet. Che si manifestano come immagini illuminate da un proiettore, nell’oscurità. Le stesse immagini che noi millenni dopo ammiriamo in una sala buia. Ma solo con una maggiore “naturalezza”.

Diviso in sette capitoli e un epilogo, Dear Werner è una lettera d’amore al cinema del regista tedesco. Una lettera in forma di diario filmato. La poetica degli autori che prevedeva la macchina da presa come una sostituta della penna è quanto mai evidente. Maqueda parla a Herzog e a noi. Gli pone e si pone delle domande. Le risposte del suo interlocutore sono il suo diario. A volte riportato in interi passaggi. Altre volte letto dalla voce di Herzog stesso. A completare e sottolineare le sensazioni di serenità che questi paesaggi incontaminati e nebbiosi possono creare. La nebbia non è l’incertezza, bensì è una pagina bianca. Così come lo era stato per il suo Mentore, Maqueda trova una opportunità di cominciare e riscrivere la propria storia.

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Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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