Percezione del rischio e crisi climatica

Percezione del rischio e crisi climatica. Uno studio per indagare perché a una percezione del rischio ambientale elevata non fanno seguito azioni concrete

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Percezione del rischio e crisi climatica. Uno studio per indagare perché a una percezione del rischio ambientale elevata non fanno seguito azioni concrete ultima modifica: 2020-08-26T08:00:47+02:00 da Redazione eHabitat.it
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Percezione del rischio e crisi climatica, una ricerca dell’Università degli Studi di Torino per indagare sui motivi per cui esiste tanta inerzia nei confronti della crisi ambientale, una vera e propria emergenza che si avvera dinnanzi ai nostri occhi lasciandoci immobili

Percezione del rischio e crisi climatica, per quale motivo pur riconoscendo un rischio elevato per il nostro pianeta i soggetti in gioco rimangono totalmente indifferenti e non adottano soluzioni concrete?

Nella prima metà del 2020 abbiamo assistito, per la prima volta nella storia dell’uomo in tempo di pace, a una radicale presa di posizione da parte dei governi, nonché degli stessi cittadini, nel modificare le proprie abitudini, ponendo la tutela della salute umana sopra ogni altro valore, di là da ogni possibile ricaduta economica e sociale.

Di fronte a questi drastici, inediti cambiamenti, viene spontaneo il confronto con l’inerzia nei confronti della crisi ambientale: una vera e propria emergenza che si avvera dinanzi ai nostri occhi da ormai molti anni, e che continua ad aggravarsi esponenzialmente. Un pericolo che ha un enorme impatto non solo sugli ecosistemi, ma anche sulla qualità della vita dell’essere umano, mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza: guardando al prossimo futuro, secondo la WHO il mutamento del clima sarà concausa di oltre 150.000 morti l’anno.

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Lo studio sui rischi

Al fine di indagare le radici di tale scostamento abbiamo tentato, attraverso un questionario online, di comprendere meglio come si configuri, in questo momento storico, la percezione individuale dei rischi, soffermandoci in particolare sul rischio ambientale e sul ruolo che la comunicazione gioca in questo ambito. Le risposte sono state raccolte tra il 15 e il 20 giugno 2020.

Degli oltre 200 questionari ricevuti, più della metà proviene da persone che hanno tra i 20 e i 29 anni: i risultati riportano quindi una visione molto “giovanile”. Inoltre, è doveroso specificare come il questionario sia stato diffuso perlopiù tra abitanti della città di Torino e di comuni limitrofi.

Comparando le risposte per le 5 principali categorie di rischio (socio-economico, geopolitico, sanitario, ambientale e tecnologico) scopriamo che la percezione del rischio ambientale è la più alta (circa la metà di chi ha risposto si sente “abbastanza” o “molto esposto” a questo rischio). Questo dato è simile per tutte le fasce di età: non si nota alcun effetto generazionale significativo.

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Seguono i rischi tecnologici: quasi il 40% si sente “abbastanza” o “molto esposto” a possibili pericoli legati alla sicurezza in rete, alla violazione della privacy e al furto di dati online.

I rischi di tipo socioeconomico sono percepiti come meno vicini da parte di chi ha partecipato al sondaggio, anche se si può notare una maggiore preoccupazione delle fasce d’età più giovani – rispetto alle più adulte – per questa tipologia di minacce.

Nonostante la pandemia da Covid-19 sia ancora in corso, solo il 16% del campione percepisce di essere “abbastanza” o “molto esposto” al rischio sanitario: guardando solo a chi ha più di 50 anni questa percentuale sale, come comprensibile, al 24%.

Il rischio geopolitico è quello che spaventa meno: solo l’8% si dichiara “esposto” o “molto esposto”.

Indagando gli specifici rischi di tipo ambientale, quasi il 50% si sente molto minacciato dall’inquinamento/qualità dell’aria, che risulta essere il fattore che maggiormente preoccupa. Anche questo risultato è trasversale a tutto il campione: il problema dello smog a Torino è sentito fortemente dai rispondenti di tutte le età. Sono percepiti come meno minacciosi fattori come la deforestazione, l’estinzione di specie animali e vegetali e l’innalzamento del livello del mare. Sorprendentemente, anche gli eventi meteorologici estremi sono percepiti come un fattore di rischio secondario: solo circa il 35% si sente seriamente minacciato da eventi come ondate di calore o inondazioni da piogge intense, forse poiché percepiti come poco probabili nel breve periodo in una città come Torino.

La comparazione tra crisi da Covid-19 e crisi climatica rivela dati sorprendenti: più del 59% di chi ha risposto ritiene la seconda “più grave” o “molto più grave” della crisi legata al Coronavirus, e la quota rimane del 50% anche se si considerano solo le risposte degli over 50. Non emergono significative differenze di genere nella percezione della gravità della crisi ambientale e climatica.

L’80% si dice d’accordo o molto d’accordo con un investimento economico cospicuo per combattere gli effetti futuri della crisi climatica, anche in questa fase nella quale molti sono i settori che richiedono investimenti importanti.

Abbiamo infine indagato il ruolo della comunicazione in questi mesi di emergenza. Per oltre l’80% di chi ha risposto, l’attenzione mediatica dedicata all’emergenza Covid-19 è stata molto elevata (“eccessiva” per il 38%); quella dedicata a tematiche ambientali è stata insufficiente per il 79%. I mezzi d’informazione considerati più efficaci per la comunicazione di questioni ambientali sono internet e i social network (63%) e la TV (55%), probabilmente perché facilmente accessibili e ritenuti adatti a raggiungere tutte le fasce della popolazione. Film e documentari (47%) e giornali e riviste (33%) sono comunque strumenti da considerare.

Dati di questo tipo, seppur provenienti da un campione piccolo, territorialmente circoscritto e composto principalmente dalla parte più giovane della popolazione, sono confermati da ricerche ben più ampie. Ne è un esempio il sondaggio condotto da IPSOS, che ha indagato la questione in 14 Paesi; i risultati parlano chiaro: il 71% dei cittadini (riferendosi agli intervistati italiani è il 72%) si son dimostrati concordanti circa il fatto che il cambiamento climatico sia tanto grave quanto la pandemia. Dinanzi a un prospetto del genere, ci possiamo ancora domandare: perché a una percezione del rischio ambientale così elevata non fanno seguito azioni concrete? Perché ci si è mossi, legittimamente, con tanta prontezza e radicalità per rispondere all’emergenza sanitaria da Coronavirus, ma non si fa lo stesso per combattere la crisi climatica?

Una possibile spiegazione è data dall’analisi delle dinamiche che portano alla costruzione sociale del rischio. Sebbene (come mostrano i sondaggi) il cambiamento climatico sia percepito come un pericolo esistente, rispetto al Coronavirus esso si configura come un fenomeno meno prossimo (a livello fisico) e immediato, andando a incidere diversamente sull’istinto di sopravvivenza degli individui, e, dunque, sulle loro azioni.

Un secondo tassello è fornito dalla mancata consapevolezza dei soggetti in merito alle conseguenze del problema ambientale sull’umanità che, unitamente alla tendenza diffusa a considerare il cambiamento climatico quale fenomeno capace di danneggiare principalmente la natura, pregiudica l’adozione di adeguate politiche di mitigazione.

All’interno di questo quadro variegato, emerge forte il ruolo delle variazioni nello stile di vita delle persone. Il riscaldamento globale rappresenta una trasformazione irreversibile, quantomeno facendo riferimento ai tempi scala della vita umana: non è una crisi momentanea, non vi sarà un ritorno alla normalità, ma saranno necessarie misure e trasformazioni permanenti. A differenza dell’emergenza sanitaria da Coronavirus, la variazione del clima comporterà dunque un cambiamento radicale e durevole nella vita di tutti noi. Un prezzo sicuramente alto da pagare, ma non così oneroso se confrontato col valore della sopravvivenza dell’umanità stessa.

I fattori fin qui delineati fanno emergere come l’assenza di una consapevolezza reale (intesa come coscienza che si rifletta nelle azioni) sia da attribuire a una mancata cognizione delle cause e degli effetti del problema ambientale, tale da renderlo invisibile e distante dalla quotidianità, come qualcosa che esiste solo dentro i manuali e gli studi scientifici. Eppure tutti ci siamo dentro, tutti ne saremo toccati e molto probabilmente sconvolti.

Al fine di compiere quell’ulteriore passo, probabilmente più faticoso – siccome implicherebbe uno sforzo non solo cognitivo, ma anche tangibile – cruciale è il ruolo della comunicazione ambientale. Negli ultimi decenni, la tematica ambientale ha acquisito rilevanza all’interno dei principali mezzi d’informazione, ma si tratta di una comparsa timida se paragonata agli sforzi necessari per colmare questo deficit di consapevolezza. Si tratta di un’impresa tutt’altro che semplice: se da un lato i canali di comunicazione mainstream rischiano di generare una visione semplificata e inesatta della realtà, dall’altro l’opinione pubblica è facilmente influenzabile dalla disinformazione legata al negazionismo, dotata di grandi capacità illustrative e comunicative.

Inoltre, come ha affermato nel corso di un’intervista Giovanni Carrosio, sociologo dell’Ambiente presso l’Università di Trieste: «Per comunicare efficacemente non basta utilizzare dati oggettivi o un approccio razionale, perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto e alle credenze delle persone». Emerge dunque l’importanza di una comunicazione coinvolgente, in grado di toccare l’‘io’ più profondo dei cittadini, risvegliando emozioni e, soprattutto, l’istinto di sopravvivenza. Questo perché, come teorizzato dal sociologo Ulrich Beck, i rischi della modernità (incluso quello climatico) possiedono un potenziale intrinseco: la capacità, tramite la percezione diffusa del rischio, di far sì che la popolazione mondiale si auto-percepisca quale ‘comunità di comune destino’. Un primo step di fondamentale importanza, considerando l’impellente necessità di organizzare una risposta coordinata a livello globale di fronte al problema transnazionale del cambiamento climatico.

Dodecalogo del giornalismo ambientale. 12 regole da seguire per raccontare la crisi climatica

[A maggio, una lezione di  giornalismo ambientale ha impegnato la redazione di eHabitat all’Università degli Studi di Torino. Il nostro Davide Mazzocco ha illustrato il suo dodecalogo agli studenti della Laurea Magistrale in Economia dell’Ambiente, della Cultura e del Territorio, nell’ambito del Laboratorio di Comunicazione Ambientale curato dalla professoressa Silvana Dalmazzone. Abbiamo il piacere di pubblicare tra le nostre pagine parte dell’elaborato finale degli studenti che hanno partecipato al corso]

Elisa Ciravegna
Federica Seidita
Matteo Perotti

[Cover Image @Francesco Rasero]

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