Le emissioni di CO2 continuano ad aumentare nonostante l’accordo sottoscritto nel dicembre 2015
La Cop25 di Madrid si è conclusa con un nulla di fatto. Dopo due settimane di lavori e un epilogo che ha costretto i partecipanti a fare gli straordinari, nella sessione conclusiva è stata riconosciuta l’esigenza di agire urgentemente contro i cambiamenti climatici, ma non si è raggiunto un accordo sulle questioni pratiche e sui vincoli necessari a ridurre le emissioni di CO2.
La Cop26 che si terrà a Glasgow nel novembre 2020 obbligherà i 196 Paesi e l’Ue a presentare i nuovi Piani Nazionali per restare nei parametri dell’Accordo di Parigi: il limite di 2°C sopra la temperatura media terrestre pre-industriale dovrà scendere a 1,5° C per evitare che la crisi climatica diventi insostenibile per miliardi di persone. Mantenendo gli attuali trend si arriverebbe a un +3,2° C entro la fine del secolo; in termini pratici, per rimanere all’Italia, significherebbe avere degli Appennini desertificati e delle Alpi “appenninizzate”, con la perdita di gran parte dei ghiacciai.
Ma che cosa stanno facendo i Paesi che, quattro anni fa, hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi? Grazie ai dati di Global Carbon Project siamo in grado di capire che cosa è cambiato fra il 2015 e il 2018 ovverosia nel primo triennio successivo alla Cop21.
Nel corso del 2018 l’emissione globale di CO2 è stata di 36.573 MtCO2: gli Stati Uniti (5.416 MtCO2) hanno prodotto il 14,80% di queste emissioni, mentre la Cina (10.065 MtCO2) ha contribuito al 27,52%. Le due grandi potenze economiche globali hanno prodotto il 42,32% delle emissioni globali, mentre l’Unione Europea ha contribuito con 3.445 MtCO2 ovverosia il 9,41% delle emissioni complessive. L’Italia con 334 MtCO2 contribuisce alle emissioni con uno 0,92%.
Se si dividono le emissioni totali per il numero di abitanti scopriamo che la Cina è solamente al 39° posto nella classifica degli stati inquinatori con una media di 7 tonnellate di CO2 pro capite all’anno, mentre gli Stati Uniti si piazzano al 12° posto con 17 t/CO2 annue per persona. La Cina (1.394 milioni di abitanti) con il 18,34% della popolazione mondiale emette il 27,52% della CO2 globale, gli Stati Uniti (328 milioni di abitanti) con il 4,31% della popolazione emettono il 14,80% della CO2 del nostro Pianeta. Il maggiore emettitore? È il Qatar, con 38 t/CO2 per persona.
Grazie al Global Carbon Atlas è possibile capire che cosa sia successo fra il 2015 e il 2018 ovverosia fra l’anno della Cop21 e l’ultimo anno statisticizzato. In questo triennio non vi è stata alcuna riduzione delle emissioni, anzi, dalle 35.239 MtCO2 del 2015 si è passati alle 36.573 MtCO2 del 2018, con un + 3,78%. Concentrando l’analisi sui singoli Paesi vediamo come gli Stati Uniti (-0,12%) e l’Unione Europea (-2,04%) siano riusciti a diminuire le loro emissioni, mentre la Cina (+3,58%) ha ulteriormente aumentato il proprio contributo all’inquinamento globale.
Il combinato dell’esplosione demografica e dell’industrializzazione asiatica ha quasi triplicato le emissioni globali nell’ultimo mezzo secolo. Dai 12.849 MtCO2 del 1968 ai 36.573 MtCO2 del 2018 l’incremento è stato del + 184,64%. In cinquant’anni le emissioni statunitensi sono aumentate del 41,48% (3.828 MtCO2 nel 1968), mentre in Cina sono cresciute di venti volte (+2050,64%).
Esaminare i dati nel loro sviluppo diacronico permette di comprendere le ragioni del segno più nella Repubblica Popolare Cinese, la “fabbrica del mondo” che non può permettersi di frenare la propria economia, nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi anni per convertirsi alle energie rinnovabili e limitare le emissioni.
Fra il 2004 e il 2018, in appena quattordici anni, si è assistito al raddoppio delle emissioni da parte dei due grandi giganti asiatici: l’India è passata da 1.146 MtCO2 a 2654 MtCO2 (+131,59%), mentre la Cina è cresciuta da 5.126 MtCO2 a 10.065 MtCO2 (+96,35%). In questo stesso periodo il Giappone ha ridotto le proprie emissioni del 9,43%, passando da 1.283 MtCO2 a 1.162 MtCO2.
E la nostra Penisola? I dati sulle emissioni ci dicono che l’Italia è stata a lungo fra le nazioni che hanno maggiormente contribuito alle emissioni di CO2. Fra il 1960 e il 1989 l’Italia ha compiuto un’oscillazione fra l’undicesima e la dodicesima posizione fra i grandi emettitori di CO2. Nel 1973 e nel 1974 è stata per un biennio al 10° posto. Ma è stato fra il 1990 (l’anno in cui l’Italia ha ospitato i Mondiali di calcio) e il 2006 (l’anno in cui l’Italia ha ospitato le Olimpiadi invernali) che il nostro Paese è stato stabilmente fra i 10 maggiori emettitori di CO2. Con la recessione iniziata nel 2007 e l’ascesa dei Brics, l’Italia è progressivamente scesa fino al 19° posto.
In termini quantitativi, lo storico delle emissioni italiane inizia con 109 MtCO2 nel 1960, progredisce sino a 495 MtCO2 del 2004 e del 2005 per poi scendere fino ai 338 MtCO2 del 2018. Ciò significa che in tredici anni le emissioni di CO2 in Italia sono calate del 31,72%.
Gli undici mesi che ci separano dalla Cop26 di Glasgow saranno decisivi e coincideranno con il rush finale delle presidenziali statunitensi. Il negazionista in capo Donald Trump proverà a farsi rieleggere, mentre dall’altra parte dell’Atlantico l’Unione Europea cercherà di capire come il probabile accordo commerciale con la Cina possa conciliarsi in maniera armonica con le decisioni prese quattro anni fa a Parigi. Intanto la sabbia continua a correre velocemente nella parte bassa della clessidra…
[Foto Pixabay – Mappa Carbon Project]