Zumiriki, la natura e il cinema sono in perfetta simbiosi al Lido

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Zumiriki, la natura e il cinema sono in perfetta simbiosi al Lido ultima modifica: 2019-09-15T08:00:59+02:00 da Emanuel Trotto
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Mi è molto difficile parlare di un film come Zumiriki di Oskar Alegria presentato nella sezione Orizzonti alla 76ma Mostra del Cinema di Venezia. Sarà complice anche il fatto che era uno degli ultimi film visti in una di queste giornate al Lido. Sarà stato il fatto che era uno degli ultimi film visti alla Mostra in generale. Ma sto ancora meditando e metabolizzando quanto visto. Cerco di collegare i puntini, di mettere assieme i pezzi del puzzle.

È uno strano oggetto questo film. Perché è un documentario nel vero senso del termine. È un tramite per comunicare una testimonianza, ma contemporaneamente non lo è. Perché esci dalla sala pieno: non di informazioni, bensì di sensazioni. Contrastanti. Quando esci dalla sala in questo modo, puoi dire di aver vissuto la vera esperienza del cinema. L’esperienza è quella primigenia della scoperta, senza preconcetti di alcun tipo, impalcature culturali dovute allo studio universitario o a quello da autodidatta. 

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È uno sguardo puro sul mondo, senza intellettualismi di sorta perché Alegria punta proprio a questo. Prima di persona e, in seconda battuta, allo spettatore. Cerca caparbiamente quello sguardo. Cerca la possibilità di dare al cinema una visione rinnovata e autentica. Vera come quella di suo padre, un pastore basco che aveva la passione per il Super8. E con esso dava la propria visione del suo mondo, il solo. Del suo gregge, del suo paese, della sua terra, dei suoi figli. Una ricerca che quest’uomo, che chiunque definirebbe un incolto, riporta a una documentazione simile allo spirito dei fratelli Lumière. A quel desiderio di vedere, prima ancora che di raccontare. Vedere il mondo così com’è. Non è un caso se i due fratelli lionesi sono stati erroneamente definiti come gli artefici del cinema “documentario”.

La ricerca di Alegria lo porta a riscoprire le colline attorno alla sua terra e ai territori lungo il fiume, che sono di proprietà della sua famiglia. In quelle colline e campagne nelle quali lui e i suoi fratelli sono cresciuti e giocavano. Il gioco preferito era quello di conquistare l’isoletta in mezzo all’ansa del fiume (in lingua basca “zumiriki” sta a significare questo). Una lingua di terra lunga poco più di un centinaio di metri. Una lingua di terra che la costruzione di una diga, ha completamente sommerso. L’unico segno tangibile della sua esistenza sono i tronchi degli alberi che la popolavano, che spuntano dall’acqua. Alberi che hanno un nome di battesimo e caratteristiche proprie. Sono parte della geografia ideale e fanciullesca di questo territorio.

Da tutto quanto è stato detto, la decisione del regista di vivere per diversi mesi in una capanna. Essa si trova su di un albero vicino alla riva del fiume. Ha una finestra che si affaccia verso il fiume, là dove c’era l’isola. Una porta che si affaccia verso il bosco. Le pareti centrali sono della memoria e del pensiero. Questo sarà luogo di riposo e di lavoro. Un tavolo e una sedia recuperati nei casolari abbandonati nel mezzo di una radura divengono il tavolo della cucina. I pasti consumati derivano da prodotti da un piccolo orto allestito nelle vicinanze, e uova di un paio di galline.

Cercare una difesa per questo pollaio da parte di predatori notturni diviene occasione di un riavvicinamento. Si crea un rapporto simbiotico fra l’uomo e la martora che lo visita, non di conflitto. Tanto che l’ultima forchettata di cibo nel piatto è lasciata in favore del mustelide. Ma la notte è anche un avvicinamento con tanti altri animali selvatici: cinghiali, gatti, rapaci e cormorani. Vuoi spiati dalle telecamere a infrarossi, o di nascosto da dentro la capanna.

Essa funge da caverna platonica, camera oscura, sala cinematografica. Il suo interno è colorato di grigio giapponese. Si tratta di un grigio molto denso, che non permette alla luce di riflettersi. Fissando alla finestra una carta fotosensibile e, una volta rimossa dalla stessa, e spalmata di sali, si assiste al miracolo. Gli alberi della zumiriki, come in un vecchio dagherrotipo si mostrano agli occhi di Alegria. E ai nostri. Un primo passo di quel ritorno alle origini di questo novello Crusoe. Isolato in un mondo dove gli uomini più vicini sono dall’altra riva del fiume oppure a qualche centinaio di metri dalla capanna, in una vicina superstrada.

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Non è il solo modo. Alegria cerca di recuperare anche l’eredità paterna con il ciclo de Le ultime notti”. Si tratta di una serie di filmati (film nel film) che raccontano le ultime ore di alcuni vecchi pastori nel loro casolare. L’unica regola è non parlare con loro. Filmarli e basta. L’unico scambio di parole avverrà a notte fonda, quando costoro si saranno addormentati. Nel buio più totale il regista li sveglierà per porre loro una domanda. La conseguente risposta sarà l’unico dialogo che avranno. «Che cosa stavi sognando?» «Che cosa vedi se chiudi gli occhi?» «Che colore ha la morte?». Dalle risposte si svolge il miracolo del cinema. Dalle loro parole nascono immagini, nella nostra testa. Il cinema vero e senza paletti.

Allo stesso modo si chiude il film. Lui si sta dondolando su di un’amaca tesa fra due rami di uno degli alberi sommersi. Con la torcia che si spegne, a conclusione di una ritualità ancestrale nel quale Alegria riprende possesso della terra, dell’aria e dell’acqua. Così ì facendo accende il fuoco della memoria ritrovata e della rinascita. Quello che era partito come una ricerca del ricordo e della memoria è divenuta qualcosa di più. Una comunione con la natura, un ritorno all’essenza. Scevra di qualsiasi preconcetto New Age.

Alla fine, tutti i puntini del film si ricollegano, tutti i pezzi tornano al loro posto. Il cinema, come avrebbe detto il grande regista russo Andrej Tarkovskij è una preghiera. Una preghiera al Creatore, o meglio alla Natura Creatrice in questo caso. La finestra sul mondo è la natura, e il cinema per divenire si nutre di essa. Diviene, in qualche modo, natura. Ci sbagliamo quando pensiamo che queste due cose siano separate. È vero il contrario. 

Zumiriki, la natura e il cinema sono in perfetta simbiosi al Lido ultima modifica: 2019-09-15T08:00:59+02:00 da Emanuel Trotto
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Zumiriki, la natura e il cinema sono in perfetta simbiosi al Lido ultima modifica: 2019-09-15T08:00:59+02:00 da Emanuel Trotto

Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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