Anche il linguaggio, si sa, va di pari passo con i cambiamenti sociali e tende ad adeguarsi ad essi. Questo fenomeno è ancora più visibile quando a determinare gli stravolgimenti della società, è un fattore esterno come l’ambiente o il clima.
Tutti noi siamo più o meno consapevoli del periodo di grande crisi ambientale che stiamo vivendo, e quanto l’argomento sia sulla bocca di tutti e inizia a farsi strada sui principali media.
Proprio i mezzi di comunicazione, che mettono in circolo informazioni e notizie, devono più di tutti dimostrare di saper stare al passo coi tempi. È quello che ha fatto The Guardian, uno dei più autorevoli quotidiani inglesi a diffusione internazionale.
Pare, appunto, che in fatto di cambiamenti climatici e surriscaldamento globale The Guardian non vada troppo per il sottile ponendo fine all’era in cui la terminologia utilizzata era caratterizzata da accondiscendenza e leggerezza. Gli scienziati di tutto il mondo descrivono questa come un’emergenza globale, qualcosa che l’essere umano sta alimentando con la sua forza distruttiva, e per questo motivo la terminologia utilizzata deve esprimere il giusto grado di drammaticità.
Ecco dunque che al posto di espressioni come “climate change” (cambiamento climatico) subentra la più preoccupante “climate emergency” (emergenza climatica) oppure “climate crisis” (crisi climatica). Così come non si parlerà più di “global warming”, espressione troppo gentile e poco esaustiva, bensì di “global heating”. I due verbi in inglese hanno una sfumatura di significato molto sottile, ma particolarmente adatta a descrivere la situazione attuale: to heat, infatti, significa proprio portare qualcosa ad alte temperature. Significato che concettualmente rende in maniera impeccabile quello che sta accadendo al nostro pianeta.
Katharine Viner, caporedattore de The Guardian, ha spiegato quanto sia importante usare la giusta terminologia in fatto di clima: «Dobbiamo essere scientificamente precisi e dobbiamo comunicare in maniera molto chiara con i lettori quando si tratta di questioni di primaria importanza. La frase “climate change”, ad esempio, suona piuttosto passiva e delicata, mentre invece ciò di cui parlano gli scienziati è una catastrofe per l’umanità».
E non solo The Guardian ha iniziato questa campagna linguistica per meglio esprimere la gravità dell’emergenza climatica, ma anche altri intellettuali e personaggi di spicco hanno adottato espressioni più teoricamente corrette. Un esempio può essere António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, che lo scorso settembre aveva parlato di “crisi climatica”, aggiungendo che ci troviamo davanti ad una drammatica minaccia esistenziale. Anche ricercatori e studiosi come il professor Richard Betts, a capo della ricerca sul clima presso il Met Office, si sono pronunciati in merito: secondo il professore, infatti, “climate heating” sarebbe una definizione maggiormente appropriata rispetto al più comune vocabolo “warming”.
La stessa Greta Thunberg, nel mese di maggio cercava di risvegliare gli animi dei manifestanti insistendo sull’utilizzo della corretta terminologia: «Siamo nel 2019. Possiamo tutti nominarlo per quello che è: crisi climatica, emergenza climatica, crisi ecologica ed emergenza ecologica?».
Pare, insomma, che il mondo intero -dalla politica agli scienziati, dagli intellettuali ai mezzi di comunicazione- voglia creare maggiore consapevolezza sul problema attuale passando anche dalle parole. Forse perché siamo abituati a partire proprio da lì: le parole stimolano la riflessione, possono esprimere realtà difficili e allarmanti, e possono muovere gli animi nella direzione di un’azione mirata al futuro benessere del mondo in cui viviamo.