Abbiamo iniziato l’anno scorso, con quel prefinale, poetico e bellissimo, di First Man – Il primo uomo di Damien Chazelle. Neil Armstrong/Ryan Gosling decide di portare come “souvenir” dalla Terra, il braccialetto della figlia morta di cancro. Esso, abbandonando la mano dell’astronauta, si fa trasportare da un innaturale “vento” lunare. Visto come qualcosa di telefonato, tal gesto rappresenta appieno una delle costanti del cinema di fantascienza. Ovvero la solitudine, il terrore del distacco. Ma dal quale è possibile ricominciare. È possibile trovare pace. L’Armstrong di Chazelle è caparbiamente arrivato sulla Luna per se stesso, per la sua bimba prima ancora che per la scienza o la politica. La Terra è lontana e tutto quanto la concerne, risulta lontano e indecifrabile.
All’inizio non intravediamo, appena sceso dalla scaletta, lo sguardo di Armstrong. Occultato dalla superficie riflettente del casco. Probabilmente scruta l’orizzonte nei suoi colori primari. Il bianco della Luna e il nero dello spazio che obbliga a una visione totalizzante. Quello sguardo è il solo modo per trovare le risposte. Qualcosa di quasi intuibile all’inizio del film, quando il nostro eroe si spinge – contravvenendo agli ordini – oltre la stratosfera. Ivi a riflettere sul suo casco, nei suoi e nei nostri occhi, è la carta velina dell’atmosfera. C’è la coscienza della sottigliezza e vulnerabilità del nostro Pianeta. La strada da seguire è oltre quella velina, ad ogni costo. Sulla Terra è possibile fallire ma lassù, oltre il tutto, no.
Poche righe più sopra quando ho definito “fantascientifico” il film di Chazelle, è stato intenzionale. Per prima cosa perché racconta un’impresa che, prima di allora, era solamente ascrivibile alla cinematografia, alla letteratura, al fumetto di tal genere. E anche perché, nel panorama cinematografico attuale, può essere accostato (e confuso) a numerose pellicole di tal genere. La space opera, nella quale il genere si rifugiava, ora è lasciata a saghe consolidate (Star Wars) o si rivolge verso canali consolidati (il cinefumetto de I Guardiani della Galassia) o alla contaminazione di generi (Passengers). Ora non si pensa più alla science fiction. Piuttosto alla real science fiction. Film come Gravity, Interstellar, Sopravvissuto – The Martian appartengono a questa categoria. E il film di Chazelle, che a rigor di logica, non fa parte del genere, si mimetizza e si mescola.
Allo stesso modo, First Man non sfigura affatto con Ad Astra di James Gray, presentato in Concorso alla 76 Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia. Dopo un anno la Mostra ci riporta nello spazio. Stavolta si va oltre la Luna, verso una frontiera ancora inesplorata, ai confini del Sistema Solare. Il film è la storia di una ricerca. La ricerca dell’astronauta Roy McBride (Brad Pitt) di suo padre, Clifford (Tommy Lee Jones). Quest’ultimo è scomparso sedici anni prima nel corso di una missione spaziale verso Nettuno, in cerca di vita extraterrestre.
Vincitore, nel 1994 al Lido, del Leone d’Argento alla miglior regia per Little Odessa, Gray ritorna con un’epopea spaziale. Si tratta nella sua prima incursione nel genere. Inoltre è la prima volta che lavora con una grande Major, la Fox. Dopo le inospitali giungle sudamericane di Civiltà perduta, egli riporta un racconto e delle tematiche kiplinghiane nello spazio inospitale. Ma non solo. Nella stesura della sceneggiatura ci sono delle reminiscenze ad Apocalypse Now e, ovviamente, anche a Joseph Conrad. Il progetto fu annunciato al Festival di Cannes nel 2016. Successivamente l’uscita (il 20 settembre negli Stati Uniti e il 26 in Italia) è stata spostata da maggio a causa dell’acquisto della Fox da parte della Disney.
Questo, tuttavia, non intacca il risultato complessivo del film. Nonostante gli eventuali rimaneggiamenti dovuti all’acquisizione resta un’opera d’autore totale. Si tratta per Gray di un film profondamente personale e che tocca alcune delle sue tematiche ricorrenti. Ovvero il senso di appartenenza della famiglia, e in senso lato, della società. L’astronauta di Pitt pone su se stesso numerosi interrogativi, espressi in lunghi voice over in stile flusso di coscienza. Si domanda, nelle prime battute del film, perché ha deciso di fare l’astronauta. Per un qualche dovere patriottico, per realizzare il sogno di qualunque bambino. Oppure è solo una bugia che si è sempre raccontato. Il lungo viaggio di ricerca del genitore viene accolto come possibilità a rispondere a questa domanda. Un domanda che riassume tutto il senso di un’esistenza.
Per farlo deve partire dalla Terra, passare per gli avamposti lunari e marziani per la volta di Nettuno. Che cos’è che si lascia alle spalle? Il mondo in cui vive è un mondo di un futuro imprecisato ma prossimo. L’atmosfera terrestre, probabilmente a causa dell’inquinamento (è intuibile anche se non palese) è sottilissima. La Luna è una terra di frontiera, colonizzata con “aeroporti” spaziali e centri commerciali sul lato illuminato. Mentre il lato oscuro è terra di conquista. Quello che ha consumato la Terra si ripete nello spazio ed è destinato alla coazione infinita. Armstrong e la sua impresa sono oggetto souvenir e gigantografie da appendere alle pareti. Marte è fieramente ostile nella superficie ma perforato per basi sotterranee.
Chi vi abita deve sognare una Terra che forse non esiste più in apposite camere con ologrammi. Non paga l’umanità cerca di comunicare con il resto dell’universo tramite colossali antenne spaziali internazionali. Il solo rifugio sembra proprio lo spazio, inospitale, freddo, silenzioso. Il luogo perfetto dove poter scappare.
Ancora una volta la Mostra del Cinema fa riflettere sul nostro presente. Lo spazio serve all’uomo per riflettere su se stesso e sulla sua condotta. Il buio ci obbliga a rifletterci in esso e a cercare di capire. Lo spazio è il nostro cuore di tenebra.